Di sconfitta in sconfitta…
Posted: April 20th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: La Sortie de l'école | 4 Comments »
“Mi si dice che da anni, nel mondo dei liberi, i pentiti di vario tipo della lotta armata premiati dallo Stato (dai delatori ai semplici abiuranti) amano ripetere a tutti: meno male che abbiamo perso”.
Vincenzo Guagliardo, membro delle BR e attualmente detenuto, trova in queste parole un significato più sottile, appartenente ad una precisa impostazione di pensiero: “chi è per il cambiamento”, scrive, “ovvero si ritiene ‘rivoluzionario’, dovrà sempre riconoscere di non aver mai raggiunto la perfezione, e perciò dovrà accettare la verità che si vada sempre avanti da un errore all’altro”, di sconfitta in sconfitta.
Il primo punto della riflessione di Guagliardo, che investe direttamente anche la sua maturata posizione rispetto alla militanza nelle BR, è dunque una demistificazione dell’ideologia.
Ogni sistema ideologico tende a costituirsi come unico, esclusivo, e dunque a porsi in conflitto con ogni altro sistema e a generare relazioni di potere. Questo avviene allo stesso modo per le ideologie autoritarie come per quelle della rivoluzione. Per Guagliardo, la capacità di riconoscere e vivere la sconfitta corrisponde alla rinuncia alla pretesa di avere con sé ogni verità (o ogni eresia) ed è l’unica base passibile per il cambiamento. Dunque, il primo nemico di ogni movimento rivoluzionario sono le sue stesse tendenze autoritarie, che germinano dalla incontrovertibilità delle proprie pratiche e delle proprie idee.
A maggior ragione se un movimento ricorre alla violenza, che è sempre la violenza della repressione. Guagliardo individua nella rivolta violenta quello stesso rito del sacrificio che è il principio fondamentale delle strutture di potere.
Fascisti, nazisti e, in modo diverso, alcuni filoni anarchici, hanno invece “ravvisato una funzione catartica nella violenza reattiva, creatrice perciò di relazioni umane e solidali di fronte al pericolo”. Anche le Brigate Rosse, scrive Guagliardo, implicitamente e senza rendersene conto, hanno adottato “non solo una tattica ma l’intero modo di pensare di quella cultura i cui frutti contestavamo”. La lotta, rivoluzionaria o di semplice contestazione, se è combattuta sullo stesso piano delle forze contro cui si confronta (prima di tutto, il piano della repressione), non solo non è efficace, ma anzi si configura come un elemento favorevole alla reazione. Continua Guagliardo, citando Emilio Lusso in Teoria dell’insurrezione (Milano 1969): “nessuno può condannare chi, in un momento di oppressione politica, si renda giustizia da sé. Ma il terrorismo politico organizzato è una deviazione della lotta politica. Esso ne costituisce la forma primitiva, lo stadio inferiore. […] Un movimento rivoluzionario deve rinunciare ad ogni azione terroristica”. E infatti sappiamo che questo tipo di terrorismo, quando manca a sinistra, spunta fuori dall’altra parte, al soldo dei poteri forti.
L’aderenza dei gruppi rivoluzionari alle logiche delle strutture di potere, prima di tutto impedisce il pensiero critico: “che peso può avere, in un’organizzazione che combatte, il dubbio, oppure il pensiero problematico? Questa esigenza può solo autoreprimersi o essere emarginata.” E in questo modo ogni potenziale rivoluzionario è sostanzialmente soffocato. Oppio non è solo la religione, ma “ogni -ismo”, ogni ideologia.
Ciononostante, questo genere di formazioni ideologiche suscitano non poca “simpatia”. Qui Guagliardo per descrivere questa fascinazione a livello dei movimenti rivoluzionari, paragona questi ultimi a Robin Hood: “Robin Hood viene facilmente applaudito perché è evidente che non sei chiamato a fare come lui ma è lui che fa per te. Tu non puoi seguirlo giacché la sua pratica richiede capacità, disponibilità e mancanza di legami che tu, popolano, non ti puoi permettere… Ma allora cos’è che in realtà ti dà Robin Hood? Ben poco, se si va a vedere: forse solo la soddisfazione del sentimento di vendetta, ossia un’emozione elementare che rischia di fermarsi al risentimento contro i potenti”.
Con questa analogia Guagliardo mette in guardia contro la passività degli attivisti, nella partecipazione alle lotte rivoluzionarie. Una passività molto pericolosa, che corrisponde ad una cessione di responsabilità: “l’azione armata, con la sua selettività, oscura questo aspetto tipico della moderna società atomizzata in tutti i suoi rapporti sociali: assolve, verso il basso, ognuno dalla sua micro-responsabilità di servo volontario facendo così scomparire la visione del più grande tiranno mai esistito”.
Ma se la lotta armata quale metodo rivoluzionario conduce ad esiti reazionari, non per questo si può giustificare la passività conformista o la partecipazione convinta alla gestione del potere. Guagliardo ci ricorda, infatti, che “il non violento è tale solo quando rischia più del violento”.
Carlo
Vincenzo Guagliardo, Di sconfitta in sconfitta, Vincenzo Guagliardo, La Grafica Nuova, Torino 2002.
Molto interessanti le riflessioni di Guagliardo. Mette bene a fuoco un problema central edel nostro tempo: l’essenza reazionaria e antidemocratica della violenza che in ogni caso abolisce il dubbio,la complessità, la partecipazione vera.
Una questione che ne consegue é: come fare a rinunciare alla violenza preservando il conflitto, condizione irrinunciabile per ogni cambiamento sociale?
Il finale mi stimola e mi fa venire la curiosità di sapere come pensa di realizzare in concreto la lotta non-violenta, ovvero come fa il non-violento a “rischiare più del violento”.
Ciao Jack!
Ti rispondo un po’ in breve. Restano ancora da affrontare tutti i passaggi che portano dalla critica della violenza a quella dell’istituzione carceraria, alla luce della “teoria del capro espiatorio”, che a sua volta meriterebbe di essere confrontata con Massa e Potere di Canetti.
Un esempio di lotta non-violenta Guagliardo lo propone in prima persona e riguarda la sua vicenda carceraria: dal suo punto di vista scegliendo di non godere dei benefici della legge Gozzini ha rifiutato di ridurre l’esperienza delle BR ad una serie di casi personali, rivendicandone con anni di reclusione la necessità di analisi a livello politico e sociale. Un altro esempio che riporta è l’emblematico contestatore di piazza Tienanmen… Ma in realtà liquida piuttosto in fretta il problema dell’azione non-violenta: “se è relativamente semplice immaginare una pratica non-violenta, più difficile è elaborare un sistema di pensiero libero dalla violenza”. A partire proprio dalla critica del sistema penale: Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie, Tivoli 1997.
Sulla violenza e il conflitto ci sono alcuni passi interessanti ne L’uomo in rivolta di Camus, se ho tempo scrivo qualcosa.
Un’ultima nota sul termine democrazia. Guagliardo non considera la nostra una democrazia, ma uno stato liberalista e cita Wallerstein (Dopo il liberalismo, trad. it. 2000): “Non dobbiamo, infatti, dimenticare che democrazia e liberalismo non sono sinonimi, ma, in gran parte, contrari. Il liberalismo fu inventato in risposta alla democrazia. Il problema che diede origine al liberalismo fu quello di contenere l’energia delle classi pericolose, dapprincipio all’interno dei paesi di centro e successivamente all’interno dell’intero sistema mondiale. La soluzione liberale concedeva un certo accesso al potere politico e una certa fruizione della quota del surplus economico, a livelli che non minacciassero l’incessante accumulazione di capitale o il sistema di Stato che lo sosteneva”.
CRC
“E’ semplice immaginare una pratica non-violenta”…ma è difficilissimo attuarla, e con risultati significativi!
Però capisco cosa intende: un’azione non-violenta (boicottaggio, sciopero, resistenza passiva) può anche essere al servizio di un sistema di pensiero violento, e divenire perciò violenta essa stessa. In particolare nella non-violenza teoria e pratica dovrebbero andare a braccetto in maniera inestricabile.
La scelta di Guagliardo (che, ho scoperto su wikipedia, fece parte del commando che assassinò Guido Rossa) è molto estrema, secondo me merita rispetto: ha “rinnegato” la violenza ma non la lotta e la critica di sistema, come peraltro molti dei suoi compagni/e che oggi sono impegnati/e nel sociale.
Io ho usato il termine “antidemocratico” nel senso più ampio, come sinonimo di autoritario, non mi riferivo necessariamente alla democrazia liberale e liberista.
Ti rispondo con alcune osservazioni di Guagliardo che ho trovato in un capitolo di Resistenza e suicidio. Secondo il suo pensiero la forma base dell’azione non-violenta è l’obiezione di coscienza, e al contrario tutte le pratiche violente ignorano le questioni di coscienza secondo la formula: il fine giustifica i mezzi. L’obbiettore per Guagliardo è colui che per prima cosa non ammette di separare il fine e i mezzi: “il fine vive nel mezzo e perciò solo il mezzo può giustificare il fine, altrimenti può soltanto tradirlo.” L’obbiettore è anche colui che disarma quelli che Guagliardo definisce “filistei”, ovvero chi acconsente passivamente al potere oppressivo per mancanza di coscienza. Anche rimandare ad un secondo tempo l’azione obbiettrice è considerato un comportamento “filisteo”.
“La non-violenza appare allora, tramite l’obiezione, prima ancora che una pratica, una teoria capace di fornire un’analisi diversa del Potere perché è anzitutto ad esso che si riferisce parlando di non-violenza: il potere non nasce dalla violenza, ma dal consenso, più precisamente dalla servitù volontaria”.L’obbiettore è dunque colui che nega il consenso e Guagliardo si propone di analizzare questa negazione in tutte le sue forme.
Come vedi il suo ragionamento sul problema della violenza si è esteso e approfondito. Inutile dire che mi trova d’accordo.
Cercherò di affrontare queste e altre idee in un prossimo articolo, a presto
CRC