Some day your prince will come

Posted: April 16th, 2011 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Some day your prince will come

Pluripremiato da pubblico e critica, artisticamente e politicamente engagé, Wasteland (Lixo Extraordinário) è un documentario, frutto della collaborazione tra l’artista Brasiliano Vik Muniz e la documentarista Lucy Walker, che  tratta del riscatto di una comunità attraverso l’arte e del riscatto dell’arte attraverso il suo contatto con la società.

Wasteland ha una grande potenza ideologica e in più il progetto artistico e sociale di Muniz che il film documenta ha un dichiarato e non banale intento politico. Le due cose insieme ne fanno un lavoro eccezionalmente raro, da cui la valanga di premi.

Purtroppo, alle grandi promesse del tema e alla forza dei simboli corrisponde un risultato politico deludente. Potremmo tagliare corto e buttarla sul personale, criticando Muniz per aver sfruttato l’iniziativa quasi esclusivamente a suo vantaggio. Ma sarebbe riduttivo, e invece Wasteland è un film da vedere e su cui discutere.

Anche perché è facile che venga preso come un esempio di arte illuminata o anche solo come un testimonial di campagne ecologiste. Il danno che farebbe in questo caso è di rinforzare una partecipazione distante, virtuale, nella gestione dei problemi comuni, e questo nonostante il fatto che Muniz sia, o sembri, molto più concretamente presente di altri artisti.

Ma andiamo con ordine.

Il documentario mostra alcuni “catadores”, raccoglitori di rifiuti, che lavorano in una gigantesca discarica a cielo aperto tra le favelas di Rio, eufemisticamente chiamata Jardim Gramacho. I catadores fanno la raccolta differenziata al posto di chi la dovrebbe fare: la fanno nella discarica, dove i rifiuti di tutti i tipi arrivano già mischiati, raccogliendo, pezzo per pezzo, vetro, pvc, plastica, carta, metallo.

Trailer.

Muniz, l’artista, lavora anche lui con i materiali. Comincia scattando una fotografia, di solito un ritratto. Poi la riproduce, ingrandita, in modo da ricoprire con l’immagine tutto il pavimento di un magazzino. A quel punto, riempie la figura sul pavimento con una texture di materiali e oggetti di ogni tipo. Una volta riempita la figura in questo modo, fotografa il risultato e questa foto, ridotta alla dimensione di un quadro, è l’opera finita. A parte la necessità di spazio e di una strumentazione fotografica particolare, è un procedimento più semplice di quanto non sembri a descriverlo a parole.


All’aspetto tecnico della sua arte, poi, Muniz ha da sempre associato una particolare risonanza ideologica. I materiali con cui ricostruisce i suoi ritratti sono gli stessi materiali con cui le persone ritratte sono a contatto quotidianamente: un contatto che spesso prende la forma di oppressione. Per esempio,una delle sue prime serie di opere di successo (Sugar children, 1996) riproduceva le foto di alcuni bambini usando lo zucchero delle piantagione in cui loro, come i loro genitori, sarebbero stati costretti a lavorare tutta la vita.

Oltre a questo, Muniz tende a rinforzare la dimensione ideologica delle sue opere componendo i ritratti di partenza secondo una iconografia da pop-art.

Nella serie di opere realizzate al Jardim Gramacho, in particolare, la costruzione artificiosa dei soggetti ne rinforza la potenza simbolica, ma in modo così retorico da risultare estraneo alla materia sociale di cui tratta. Il gioco è chiaramente quello di creare un contrasto, ma a che scopo?

L’intenzione di Muniz è di migliorare le condizioni di vita dei catadores. Materialmente, dandogli un lavoro migliore, come assistenti nella realizzazione delle sue opere e offrendogli una parte del ricavato della loro vendita. Meno materialmente, proponendo loro una esperienza che rinforzi la stima in loro stessi, ne apra gli orizzonti mentali e dunque li metta in condizione di reagire e migliorare la loro condizione con le proprie forze.

Il discorso suona bene, ma dimentica un paio di cose. Prima di tutto, che non si può bypassare la pratica politica vera e propria.

Muniz, come molti altri, distingue la pratica artistica engagé dalla pratica politica. Lascia che sia Tiao, un ragazzo che ha fondato il primo nucleo della cooperativa dei catadores di Jardim Gramacho, ad occuparsi delle rivendicazioni sindacali dei lavoratori della discarica. Muniz si limita a dargli un’occasione in più per portare avanti il suo lavoro e in questo, almeno in parte, evita l’ipocrisia.

Ai catadores Muniz non promette nessun riscatto collettivo. Ne prende alcuni, li mette a lavorare, gli fa fare una bella esperienza e gli dà un po’ di soldi. Tutto qui. Onestamente, Muniz non pretende di più, non si mette a fare il profeta della rivoluzione, né l’organizzatore politico, perché non ne sarebbe capace e perché, in effetti, il suo mestiere è un altro.

Ma questo è il massimo livello di onestà che il progetto riesce ad ottenere. Muniz riconosce i suoi limiti come artista: l’arte non può fare di più, il resto è politica.

E tuttavia, questo limite è fondamentale. La politica, in senso lato, non può essere ridotta ad un oggetto dell’arte, perché è una sua dimensione. Tutta l’arte è politica, dunque non importa quanto un’opera sia più o meno dichiaratamente politica, ma quanto sia politicamente efficace.

E il progetto di Muniz, in questo senso, si dice politico, ma non lo è. Specialmente perché evita con cura ogni forma di critica.

Muniz sfrutta abilmente il suo tema sociale, facendo risuonare tutte le sue associazioni simboliche e incorporandolo nella sua visione dell’arte, sfrutta la situazione dei catadores come un serbatoio di metafore e come il collegamento tra arte e realtà, che è necessario per un’opera d’arte impegnata.

Nel fare questo, non tocca nemmeno per sbaglio un tasto sgradevole ai ricchi potenziali compratori delle sue opere.

L’intero progetto di Wasteland si basa, a livello del discorso, su una serie di strutture ideologiche forti, ma convenzionali: rifiuti – rifiuti umani, riciclaggio  – arte, artista – rivoluzionario. In questo modo Muniz vende le sue foto e in questo senso le sue foto non sono rivoluzionarie. Il film si autodefinisce una storia di moderne cenerentole, alla faccia dell’impegno sociale!

La foto di Valter, un vecchio operaio in tutti i sensi, impermeabile all’arte di Muniz, è messa in fondo al film, ma non entra nell’esposizione.

In definitiva il film rinforza idee di successo personale nei catadores come negli spettatori e promuove un individualismo “fatale” – nel senso di casuale e di mortale: fai la tua (ingiusta) parte, non ribellarti, e forse un giorno arriverà il tuo principe azzurro.

 

Carlo


Comments are closed.