From wonderland to non-place

Posted: December 3rd, 2010 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | Comments Off on From wonderland to non-place

Un non-luogo è definito da Augé come un luogo (fisico e mentale) privo della sua dimensione sociale. Non tanto una piazza vuota, quanto una piazza dove nessuno si parla.

Un aeroporto è un non-luogo, come lo sono l’interno di un’automobile, un’autostrada, o Disneyland. Facebook è, per certi versi, un non luogo. Ogni non-luogo è lieto di offrire a tutti conformità, consumo e un caratteristico tocco neofascista.

Se è vero, come scrive Marcuse, che l’individuo può esistere solo in contrasto con la società in cui vive, in un conflitto essenziale con le norme e i valori stabiliti, i non-luoghi determinano l’opposto dell’individuo: l’uniformità, sanzionata da convenzioni più o meno repressive o ideologiche. Uniformità che è anche il contrario della libertà e dell’uguaglianza, perché per prima cosa nega l’autonomia: feed me master, tell me who I am.

Ma più ancora di questo, i non-luoghi si sottraggono come spazi di lotta. Mancando ogni possibilità di rapporto sociale, l’uomo in rivolta non può che attaccare se stesso.

The arrangement_opening sequence (Kazan, 1969).

Come al solito, mi viene da sottolineare quanto il prestigio di queste strutture sia radicato nella paura dell’autonomia, più che nella loro imposizione forzata. Ma al di là di questo i non luoghi hanno una precisa identità politica, sulla quale Augé scivola in silenzio.

Identità che invece viene colta e sfruttata in modo genial-demenziale nella campagna di subvertising di Micky Mouth, che arruola topolino nel tea party, lo fa sparare ai messicani alla frontiera e gli fa costruire un muro impenetrabile intorno al suo dominio incantato.

Non è una novità, topolino è sempre stato profondamente reazionario. Ma è una buona metafora, che coglie il livello infantile, e non per questo meno violento, del fascismo.

Disney è stato un pioniere dei non-luoghi. Ha attaccato il cuore della cultura popolare, le fiabe, e lo ha distrutto.  Con il sostegno dell’intero apparato mediatico ha colonizzato un bene comune e lo ha trasformato in un bene di consumo e in uno strumento al servizio dell’ideologia dominante.

Togliendo dalle fiabe ogni vero conflitto, le ha private del loro significato profondo e contemporaneamente della loro dimensione sociale. In questo modo Disney ha distrutto un patrimonio fondamentale di narrazioni di lotta, di cui oggi si sente la mancanza.

Le sue creature non vivono in un mondo fantastico, ma in non-luoghi. Il loro non è un mondo surreale, perché non espone la realtà per coglierne gli aspetti nascosti, la loro non è una fantasia che si oppone alle convenzioni. E’ un mondo che nasconde la realtà e, quindi, la conferma.

E non c’è solo Disney, ovviamente. L’intera mainstream della letteratura e del cinema fantastico non è più in grado di proporre visioni del mondo surreali. Passato è anche il tempo di Blade runner e High rise (in lavorazione un film) in cui i non-luoghi erano l’oggetto della fantascienza, esaminati nelle loro dinamiche e nelle loro conseguenze. Se The road forse tiene (il film, fino a prima del finale), Children of men segna il momento in cui anche la distopia arriva a confermare le convenzioni.

Dopo l’Alice coloniale di Burton, la magia disincarnata di Harry Potter, l’addomesticamento fedele del Signore degli Anelli, l’inesistente Avatar, la valanga di animazioni pixar tutte giocate sui prototipi, Gian mi segnala che questo è il prossimo cappuccetto rosso:

Se l’acqua è un bene comune, lo sono anche le nostre storie.

Una storia non può essere raccontata più di una volta senza cambiarla, non è una proprietà, ma una creazione, cioè, fondamentalmente, una creazione condivisa. Persone, luoghi e racconti hanno bisogno gli uni degli altri. E qui torniamo alla definizione antropologica di società, che è il contrario del non-luogo.

Non possono esserci storie senza luoghi in cui poterle raccontare, ma i luoghi stessi, senza storie, non esistono.

Carlo


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