Melting the pot

Posted: April 7th, 2012 | Author: | Filed under: La chambre d'écoute | Comments Off on Melting the pot

24 marzo, altro concerto della serie Banlieues Bleues, questa volta a Saint Denis. Più che degradato sembra soltanto deserto, un quartiere di palazzoni di vetro e di cemento, alcuni fatti di plastica, poco più che prefabbricati. Saranno tutti a Parigi per la festa del sabato sera, ma le strade sembrano di quelle nate per restare vuote, lasciate alle bagnoles e perse in una urbanistica senza centro. Pulite, però, le piazze almeno – rappresentanza della Nazione. I servizi ci sono, mimetizzati nel paesaggio industriale: una università, pubblica, che sembra un centro commerciale, un mercato coperto che sembra un silos, un asilo, cartelli stradali per l’ospedale… Almeno per il momento.

Tra qualche giorno arriverà in zona Fréderic Mitterand, ministro della cultura e della comunicazione, e una militante raccoglie firme per protestare contro i tagli alla cultura – presto chiuderanno un teatro a pochi isolati da dove ci troviamo. Firmo, chissà che valga anche la firma di un italiano.

Tristezza a parte, siamo qui per ascoltare Ray Lema, un pianista congolese di cultura e influenza internazionale e Jupiter Bokonji & Okwess International scoperta del rock alternativo in Congo, portato alla ribalta in europa dal documentario Jupiter’s Dance di Renaud Barret e Florent de La Tullaye. Nota di gusto, l’organizzazione ha pure predisposto un banco che vende bevande varie e qualche piatto tipico africano, preparato e servito da donne migranti. Dividiamo un piatto di pollo. Ho appena finito di leggere Things Fall Apart di Chinua Achebe, e anche se non centra molto con il foo-foo delle ultime tribù “non pacificate” del basso Niger, tutto si confonde benevolmente e mi preparo ad ascoltare il suono metallico dell’ogene.

Aspettativa ampiamente superata dal concerto di Lema, che ha arrangiato insieme musicisti e strumenti delle più diverse tradizioni: Henri Dorina, un bassista elettrico di scuola blues, Ray Lema, un pianista Jazz minimale e di radici sonore africane, Tshimanga Mwamba e Tandjolo Yatshi, due percussionisti “etnici”, Viviane Arnoux, bandeoneonista francese, Djitumba Tumba Ngalula Cécile, una cantrice popolare, e per finire due giovanissimi rappettari congolesi, alle prima armi ma con entusiasmo a palate, dal nome collettivo di KMS Pascifhik. Ho dimenticato Freddy Massamba, cantante dalla potenza vocale e dalla presenza scenica così potenti da ricordare l’omonimo Mercury e risultare fuori luogo in un teatro chiuso. Anche solo la vista del palco è eclettica, figuratevi il suono, che resta agile in ogni momento e perfettamente amalgamato.

Due righe intellettualoidi a mo’ di intermezzo. L’idea di melting pot, tanto cara agli americani, dietro un’apparenza di multiculturalismo liberale (sempre pronta a cadere sotto i colpi di pistola del mai morto Jim Crow), è in realtà spregevolmente imperialista. Tutte le culture si fondono, è vero, ma all’interno del contenitore imposto dall’egemonia del capitalismo bianco, cristiano e occidentale. La temperatura del metallo fuso, per definizione, non è mai abbastanza alta da fondere il contenitore e così il risultato è una omologazione invece di una moltiplicazione della varietà. Il jazz di Lema, al contrario, non funziona come contenitore ma come un luogo di incontro, ogni momento di cultura musicale esiste per intero e si combina con gli altri indipendentemente.

Delusione invece, sul momento, la seconda parte della serata – il concerto di Jupiter e Okwess International. Forse in un’altra occasione avrei apprezzato di più la violenza del gruppo – qualcosa tra l’indie rock e lo ska, africano, a Parigi, di certo meritava più entusiasmo da parte mia. Ma mi sono spento sul nascere, per chiusura ideologica lo ammetto, appena ho visto che Jupiter era in divisa da militare e la cantante del gruppo sfoggiava un incrocio tra maquillage mimetico e pitture tribali di guerra. L’incomprensibilità dei testi mi ha ulteriormente confuso. Comunque, la performance è stata sempre potente, con larghe concessione alla danza (quasi alla dance) e una tendenza ad usare tutti gli strumenti come percussioni. Un po’ ripetitiva, ma ritmicamente incandescente – gli ultimi pezzi più complessi dei primi, con mia maggiore soddisfazione. In ogni caso rimane un ottimo esempio di appropriazione di forme musicali occidentali, in stile melting pot (gli strumenti tradizionali presenti sul palco ma soffocati da chitarre e batteria) – ma dovrei vedere almeno il documentario per farmi un’idea della sua temperatura politica.

 

 

 

 

 

Carlo (testo e foto), Valentina (foto)


Comments are closed.