Feed Me, Master

Posted: January 24th, 2010 | Author: | Filed under: L'empire des lumières | 2 Comments »

 

 

 

L’università non dovrebbe nutrire le menti?

Quando l’ho vista non ci
credevo. Ma in fondo non vedo cosa ci sia da stupirsi. L’americano
medio è felice e plaudente di fronte a qualsiasi società faccia
soldi, poichè questo incarna lo spirito americano..Ed ecco che per fare
breccia nel cuore dei giovani un colosso dell’informatica,
incarnazione dell’America, ma meno cool di altre aziende di grido,
prima tra tutte Apple, cavalca un tormentone tra gli studenti, i
free burritos, per farne un cavallo di battaglia. Che, a ben
vedere, suona anche di
cattivo gusto in un paese che pullula di
obesi e che dovrebbe avere il miglioramento delle diete dei suoi
cittadini come uno dei massimi obiettivi.

Grazie padrone, per il cibo che mi dai.

g.


Il libro delle facce

Posted: January 6th, 2009 | Author: | Filed under: L'empire des lumières | 1 Comment »

Avevo già analizzato qui il delirio collettivo che pervade la rete, la cosiddetta "blogosfera", il cosiddetto "web 2.0". Termini che odio. La rete per me dovrebbe essere ancora quella di dieci anni fa, una gigastesca distesa dove esprimere sè stessi e le proprie idee, in libertà. Dove le poche isole controllate da questa o quella corporation sono ausili per il navigante, e non costrizioni, e se uno le vuole evitare, è libero di farlo. Ricordo i motori di ricerca arcaici, dove era un’impresa trovar qualcosa, ma, giunti sulla pagina desiderata, sembrava di aver scovato chissà quale tesoro.
Ricordo l’avvento di Google, con le ricerche che diventavano sempre più facili, con le pagine cercate che arrivavano senza più fatica. Qualche anno dopo, ci siamo resi conto che, forse, quel gigante con la G non era poi così diverso dalle corporation di cui avevamo imparato a diffidare. Nell’era dell’informazione, le informazioni sono diventate oro, e chi le possiede può esercitare un potere pressochè sconfinato. Brin e Page avevano elaborato una macchina ingegnosa, che, nel giro di qualche anno, lavorando con fatica, era riuscita a raccogliere un numero di informazioni tale da rendere straricchi loro e i loro inserzionisti.
Ora, questa forma di capitalismo, sebbene, all’epoca innovativa, rielabora i canoni di sempre: qualcuno ha un’idea, fatica per metterla in piedi, corre il rischio di fallire più volte, e alla fine incassa i milioni, stando attento che un altro pescecane non gli faccia la festa.
Ma le meraviglie del web formato 2.0 hanno superato questo vetusto e dispendioso modello. All’alba del 2009, chi ancora fatica per avere successo (anche se sulle spalle altrui) spreca energie.
Create allora un portale, messo lì, ufficialmente, per ritrovare i vostri amici perduti di vista dal liceo. Date la possibilità a chiunque di iscriversi, creare reti di socialità, mettere dentro foto e qualsiasi informazione su sè stessi, aggiungete un accordo di licenza al limite del ridicolo (ma tanto chi li legge?) e mettetevi comodi nella vostra villa di San Josè o di chissà dove ad aspettare, tra Martini e piscine. Miracoli del web, le informazioni fluiscono da sole! In milioni, a inserire tutto ciò che hanno da dire di sè, la lista di tutti i loro amici, cosa piace loro, cosa gli fa schifo, chi ucciderebbero, non importa se zingari, ebrei o chicchessia… in un decimo del tempo impiegato da Google, ecco avere tutte le informazioni necessarie per bersagliare questi produttivi utenti di pubblicità. Con un vantaggio in più: le informazioni sono già ritagliate a misura sull’utente, e non sono più necessarie quelle tecniche di data mining e marketing con cui gli informatici si masturbano il cervello. Ma c’è di più. Il delirio non poteva finire qui. Ecco gli utenti stessi che iniziano a fare pubblicità, gratuitamente, e apparentemente senza nessuna ragione se non alimentare questo gioco perverso. Ecco il tuo miglior amico che ti informa di essere diventato fan di una bibita dalla lattina rossa, ed ecco che anche tu lo diventi, perchè ti piace da impazzire, e l’informazione si propaga per tutta la rete di amici. Pubblicità gratuita, e mirata al target giusto. Per una sit-com, o qualunque altra cagata, è un attimo diventare popolari.
Non finisce ancora qui. Giochini più o meno stupidi iniziano a spuntare, che un utente può inserire nella sua pagina. La gente ci perde le giornate. Quello che non sanno, è che quei giochini possono ottenere all’instante tutte le informazioni che loro, più o meno inconsapevolmente, hanno "regalato" al social network. E usarle per chissà quali fini, senza neanche pagare un obolo a quei filantropi che hanno creato questa sorta di summa dell’umanità intera. Informazioni, magari anche molto private (ma perchè le pubblicate??) che diventano di dominio pubblico, ottenibili da chiunque, non solo dagli "amici". Già, gli amici.
Gli amici meritano un discorso a parte. Mi considero una persona abbastanza socievole, ma, a contarli a uno a uno, fatico ad arrivare a 30 amici… e qui c’è gente che ne ha centinaia… è cambiato il significato di amicizia? Beh, il gioco perverso sta anche in questo. Più il network spinge a fare amicizia, più le informazioni utili per chi lo controlla si propagheranno, e raggiungeranno un pubblico più vasto. Non destinatari casuali, come nel caso dello spam (dilettanti!), ma un uditorio rigorosamente selezionato per provenienza, livello culturale ed età. E poco importa se quello che ti ha appena chiesto amicizia non ti saluta nemmeno quando ti vede ed è anche fascista, avere più amici ti rende più popolare…
La creatura cresce ad ogni minuto, e non è controllabile. Se tu hai un po’ di pudore e non pubblichi quella foto di te ubriaco e vestito da suora, qualche tuo amico lo farà di certo, e ci appiccicherà il tuo nome. E resterà lì per sempre. E tu, meschino, non avrai neanche il copyright su di essa. Magari, tra 4 o 5 anni, la useranno come immagine per la campagna pubblicitaria di qualche azienda che non sopporti. Questo è Facebook, amico.
Purtroppo, a stare lontani da questi meccanismi sono sempre meno persone, e farsi fagocitare è sempre più semplice. Noi, per ora, resistiamo.
 
g.
 
L’immagine è stata presa da qui

Copyright vs. Community

Posted: May 12th, 2008 | Author: | Filed under: L'empire des lumières, La Sortie de l'école | 4 Comments »

 

 

Spesso si ritiene che il copyright, nelle incarnazioni con cui siamo abituati a confrontarci, sia parte integrante e fondante della nostra società. In genere si pensa che, senza diritto d’autore, nessuno sarebbe spinto a creare alcunchè di nuovo.
In questo articolo analizzeremo come quello che oggi chiamiamo diritto d’autore sia tutto tranne che una tutela per gli artisti o, più in generale, per i creatori di nuova conoscenza.
Il copyright moderno nacque successivamente all’invenzione della stampa. Prima di questo evento, chiunque poteva copiare un libro semplicemente facendolo di suo pugno. Di fatto il commercio delle opere non esisteva, e quindi non si sentiva il bisogno di legiferare sull’argomento. Un autore veniva pagato per scrivere un’opera, in genere dal potente di turno, ma non vedeva una lira per le copie del suo libro che venivano prodotte dopo la prima stesura.
Con l’avvento della stampa la situazione cambiò radicalmente, in quanto iniziarono a nascere gli editori, che, stampando migliaia di copie dei libri che gli autori scrivevano, iniziarono a creare profitto dalla diffusione di un libro su larga scala. Per assicurarsi di avere sempre nuove uscite con cui allettare il pubblico, gli editori, assieme ai governi, crearono il copyright. Il diritto d’autore, nella sua forma originaria, voleva essere un incentivo per gli autori, che tramite esso, si vedevano corrisposto un compenso per ogni copia dei loro libri che veniva venduta.
L’introduzione dei vincoli sulla copia delle opere letterarie toglieva ai lettori la libertà di effettuare copie dei libri che acquistavano, ma era bilanciata dalla garanzia di avere sempre nuovi libri di qualità e di finanziare gli artisti.
Col passare del tempo, tuttavia, le aziende spostarono il fulcro dei contratti di copyright sempre meno a tutela degli artisti e sempre più a tutela di sè stesse. Quello che doveva essere un diritto temporaneo, che arrivava a scadenza dopo un ragionevole lasso di tempo al fine di favorire nuove opere iniziò a venir prorogato. Emblematico è il caso della Disney, e delle sue pressioni sul governo americano per non veder scadere i diritti su un topo partorito ormai quasi 80 anni fa. Anzichè far fronte allo scadere delle royalty creando nuova arte, si paga il governo per allontanare il giorno in cui si dovrà fare i conti con lo scadere del copyright, e quando questo giorno si avvicinerà di nuovo, lo si posticiperà ancora e ancora. Il sistema ha mostrato chiaramente le sue contraddizioni.

Con l’avanzare della tecnologia, inoltre, è diventato sempre meno costoso diffondere opere d’arte, fino a giungere all’era di internet, in cui copiare un brano musicale non costa nulla ed è quasi immediato. Le aziende avrebbero potuto reagire a questo cambiamento in vari modi. Reagirono restringendo sempre più la libertà degli utenti, arrivando a commercializzare musica riproducibile solo su determinati lettori, o a vendere libri elettronici leggibili da una sola persona e per un numero limitato di volte. A una tale riduzione di libertà, però, non corrispose un adeguato corrispettivo agli autori.

La bilancia tra libertà tolte agli utenti e incentivi per la produzione di nuova arte iniziò a pendere troppo da una parte.


In quest’ottica si colloca il ciclo di conferenze che Richard Stallman sta tenendo in giro per l’Italia in questo periodo. L’inventore del software libero e del progetto GNU ha deciso di estendere la propria attenzione dai programmi per computer a tutti i campi del sapere, esponendo una sua visione di come, nel 2008, il copyright dovrebbe cambiare per restare al passo coi tempi.
Stallman ritiene che le libertà che vengono tolti agli utenti tramite il Digital Rights Management o altri meccanismi simili siano inaccettabili.
Egli ritiene che la diffusione di qualsiasi opera, per fini non commerciali, dovrebbe essere libera.
In particolare, individua tre categorie di opere che vadano coperte dal copyright:

 

  1. Tutte quelle opere che siano necessarie per la collettività – Si tratta, ad esempio, dei farmaci, o dei progetti di strade, o la ricetta per produrre energia pulita. Tutti questi prodotti, essendo fondamentali per il progresso e il benessere della società, dovrebbero essere disponibili per tutti, sia a fini di studio che di fruizione. Gli utenti devono essere liberi anche di migliorarle, in quanto da quest’azione trae giovamento tutta l’umanità.
  2. Opere legate a memorie – Sono tutte le opere "storiche", frutto di
    testimonianze dirette dell’autore o di inchieste giornalistiche. Per
    queste opere Stallman propone la libera circolazione non commerciale,
    ma la possibilità di venderle o di modificarle solo con l’esplicito
    consenso dell’autore. In questo modo si garantisce a chi produce opere
    di guadagnare per il proprio lavoro, qualora questo venga distribuito a
    scopo di lucro. Si garantisce anche che non possano esistere modifiche
    del lavoro di un autore senza la sua approvazione. In questo modo si
    vuole preservare l’integrità storica di questo genere di produzioni.
  3. Opere di "intrattenimeno". Si tratta di tutte le restanti opere
    letterarie, dai romanzi ai brani musicali. Per queste opere, Stallman
    propone una riduzione drastica della durata del copyright, intorno ai
    10 anni. Pone vincoli simili alle opere del gruppo 2, salvo che, per
    mantenere l’integrità artistica di un’opera, non ne ammette la modifica
    fino allo scadere del copyright. Una volta scaduto questo, l’opera sarà
    completamente di pubblico dominio, e la comunità avrà anche la facoltà
    di distribuirne proprie versioni modificate.

Resta la domanda su come facciano gli autori a guadagnare se chiunque può distribuire gratuitamente le proprie opere. L’obiezione nasce dalla convinzione, errata secondo Stallman, che chi produce arte guadagni in maniera rilevante dalle opere che vende. Questo, a suo dire, è falso, in quanto, ad esempio, i soldi che derivano dalla vendita dei dischi vengono distribuiti in maniera iniqua in gran parte alle superstar e in minima parte agli autori minori.
Stallman teorizza allora un mezzo informatico in grado, tramite la rete, di trasferire, tramite un clic, un euro all’autore di un brano che ci piace, semplicemente visitando la sua pagina web. Tagliando fuori le case discografiche, la distribuizione ingiusta dei proventi avrebbe fine.

Credo si tratti di riflessioni interessanti, con le quali magari si può non essere totalmente d’accordo, ma che costituiscono una buona base per una discussione critica.

g.


Software Libero non è open source

Posted: April 22nd, 2008 | Author: | Filed under: L'empire des lumières | 5 Comments »

 

Non è facile mantenere saldi i propri principi in una società dominata dall’egoismo, dall’arrivismo e dall’utile a tutti i costi. A maggior ragione, non è facile mantenere questi principi quando si frequenta tutti i giorni un’università che, in maniera neanche troppo velata, mira a trasformare l’individuo in uno squalo, in una persona che persegua il business come fine ultimo della propria esistenza.

Sono uno studente di ingegneria informatica. Non so ancora se e in quale parte questa società riuscirà a piegarmi ai suoi principi. Quello che è certo è che, anche all’interno di uno spazio accademico, le mie idee non hanno vita facile come si potrebbe pensare.
Mi definisco sostenitore del software libero, così come sono sostenitore della libertà in altri campi.
Nel corso di fugaci rapporti con il mondo del lavoro, così come nelle ingerenze che questo ha avuto con l’università, mi sono dovuto confrontare con varie tipologie di personaggi. Da coloro che trattano il software libero come un giocattolo, denigrandolo, nascondendosi dietro a programmi proprietari costosissimi che spesso fanno da paravento a una loro neanche troppo ben celata incompetenza, a coloro che accettano il software open source, con i dovuti distinguo, laddove e soltanto nei casi in cui sia migliore di quello proprietario.
Tra gli studenti la situazione non è molto diversa. Al di là di quelli che, insicuri per natura, acquistano sicurezza schierandosi con le multinazionali e godono per ogni loro vittoria, la categoria che è maggioritaria è quella che usa software open source perchè funziona bene e permette di imparare di più, salvo poi tornare di corsa al software proprietario nei campi in cui questo offra ancora maggiori possibilità.

Notate come, a nessuna di queste persone, abbia messo in bocca le parole "software libero".

Perchè, certamente, l’open source e il software libero sono due filosofie che vanno di pari passo per molti aspetti. Entrambe combattono una "guerra" contro il software proprietario. Entrambe professano una maggiore apertura del codice. I presupposti che stanno alla base delle due, però, sono totalmente diversi. Il free software predica la libertà dell’utente, libertà che nessuno può limitare. L’open source accetta anche un approccio più liberale (termine scelto non a caso). Chi lo sostiene è convinto che il modello di sviluppo aperto sia migliore degli altri, e lo adotta per motivi puramente utilitaristici.
Fin qui nulla di male, entrambi cooperano all’apertura dei codici sorgenti, e nessuno dei due fa male all’altro. La chiave di lettura da applicare ai due movimenti, però, è un’altra, almeno a mio avviso. 

A tal fine è utile la lettura del seguente articolo di articolo di Richard Stallman.

Cito dall’articolo:

Parlare di libertà, di problemi etici, di responsabilità così come di
convenienza è chiedere di pensare a cose che potrebbero essere
ignorate. Questo può causare imbarazzo ed alcune persone
possono rifiutare l’idea di farlo.

L’open source è una definizione coniata per rendersi più appetibili alle aziende, che, così pare, non vedono di buon occhio la parola libertà, a differenza di un noto statista e imprenditore italiano. Parlare di libertà, potrebbe mettere a disagio aziende che con essa non hanno nulla a che fare, ma che, senza dubbio, avrebbero un grande ritorno d’immagine da un modello "open source"…

Queste aziende cercano attivamente
di portare il pubblico a considerare senza distinzione tutte le loro
attività. Vogliono che noi consideriamo il loro software non libero
come se fosse un vero contributo, anche se non lo è. Si presentano
come "aziende open source" sperando che la cosa ci interessi,
che le renda attraenti ai nostri occhi e che ci porti ad accettarle. Questa pratica di manipolazione non sarebbe meno pericolosa se fatta
utilizzando il termine "software libero". Ma le aziende non sembrano
utilizzare il termine "software libero" in questo modo. Probabilmente
la sua associazione con l’idealismo lo rende non adatto allo scopo.
Il termine "open source" ha così aperto tutte le porte.

L’open source è, insomma, un volto più amichevole verso la new economy, una definizione che non costringa, ogni volta che viene pronunciata, a domandarsi se, in effetti, ciò che si sta facendo sia etico.

Una definizione che, essendo priva di spunti etici, permetta agli utenti in qualsiasi momento, e senza alcuna remora, di tornare al software proprietario, qualora questo sia più adatto alle proprie esigenze. Rendendo ricche le aziende che hanno fatto di quest’apertura uno specchietto per le allodole.

E’ senza dubbio una cosa positiva che tante persone usino i programmi liberi, per studio o per lavoro. Ma il movimento del software libero è nato con precisi intenti etici e con lo scopo di garantire la libertà dell’utente. E questo, spesso colpevolmente, è un aspetto trascurato, non solo da chi avrebbe tutti i motivi per farlo, ma anche dagli utenti, che di questa libertà sono i principali beneficiari.

g.


Orgoglio e gloria del Web 2.0

Posted: April 20th, 2008 | Author: | Filed under: L'empire des lumières | Comments Off on Orgoglio e gloria del Web 2.0
 
 
Durante l’ultima visita in libreria mi sono imbattuto in "Zero Comments" di Geert Lovink, sottotitolo "Teoria critica di Internet". Il primo dei tre saggi contenuti nel volume si intitola "Orgoglio e gloria del Web 2.0". Dopo averlo letto, posso dire di non essere d’accordo con buona parte delle idee esposte dall’autore, che spesso, a mio avviso, vanno in una direzione sbagliata, o presentano mancanze che difficilmente mi spiego. Tale saggio, tuttavia, mi ha suscitato alcune riflessioni.
Innanzi tutto, da partigiano dei media liberi, dell’informazione accessibile a tutti, della privacy e dell’anonimità quale sono, difficilmente tengo a mente che alla stragrande parte delle persone che utilizzano internet di tutto ciò non importa nulla. Peggio ancora, non sono neanche coscienti che effettivamente un problema su queste tematiche esista.
E’ vero però anche il contrario. Come Lovink ci ricorda, per una certa categoria di hacker e attivisti (o hacktivisti, per usare un neologismo un po’ abusato), tra cui, in parte, mi riconosco, "i milioni di utenti normali semplicemente non esistono: così, lo scontro su Internet è ritratto come una lotta eroica tra gli hacker e le forze di sicurezza. Le masse di utenti non sono nemmeno prese in considerazione come pubblico". Questa frase va a colpire non troppo lontano dal centro del bersaglio, secondo me. Troppo spesso gli utenti esperti e "coscienti" si perdono in discussioni sui massimi sistemi, scatenano guerre di religione su questioni tutto sommato futili o, talvolta, si ritirano in isole felici, come la piattaforma su cui questo blog è ospitato, ignorando ciò che avviene all’esterno. Forse si otterrebbero risultati più efficaci se si impiegassero le forze a rendere più gente possibile cosciente delle trappole che si nascondono dietro al Web 2.0, anzichè lottare contro i giganti.
Diamo allora un’occhiata a cosa fa la gente con la rete, allontanandoci per un po’ dai siti a noi cari, da autistici/inventati, dalla rete tor, da wikipedia.
Cosa ama fare la gente sulla rete nel 2008? Non imparare, non condividere la propria conoscenza, ma farsi vedere. Si aprono blog in cui si mette in mostra la propria vita privata, si creano reti sociali, si condividono gusti e interessi. In questo mondo, una pagina senza commenti (come riecheggia il titolo del libro) è come se non esistesse. Ciò che la gente ha da dire perde di importanza, ciò che conta è quello che gli altri pensano di ciò che viene scritto. Ed ecco nascere immensi social network, che contengono non si sa bene cosa.
Non ho mai bazzicato MySpace, non frequento nessuno che lo usi. Al momento di scrivere quest’articolo, ho deciso di andare a dare un’occhiata… Dalla home page si accede a decine e decine di blog, ma visitandoli sembra che non abbiano nulla da dire a un visitatore… "Io sono tizia, questi sono i miei interessi, questi sono i miei amici…" Come possono pagine del genere interessare a una persona che non ti conosce? L’arcano è presto svelato: non sono informazioni che debbano interessare alle persone, ma ai signori a cui MySpace le venderà a caro prezzo… sì, perchè dietro all’ingenuità e alla vacuità di molti c’è chi intasca milioni di dollari… Ma, come dicevo, questo pare non interessare quasi a nessuno.
Vedo che molti gruppi musicali giovanili mettono i propri brani su MySpace, e mi domando: come sarà gestito il copyright? Mi vado a leggere l’accordo di licenza del sito. "L’Iscritto mantiene ogni eventuale diritto sui propri Contenuti pubblicati sui Servizi MySpace". Perfetto, quindi se un brano è mio continua ad esserlo… ma i contratti vanno letti fino in fondo… "l’Utente concede a MySpace una licenza limitata per l’uso, la modifica, la rimozione, l’ampliamento, l’esecuzione o esposizione pubblica, la riproduzione e la distribuzione di detti Contenuti esclusivamente su o tramite i Servizi MySpace, compresa – a titolo esemplificativo e non limitativo – la diffusione parziale o totale del sito MySpace su qualunque supporto o formato e tramite qualunque canale mediatico". Come può la gente accettare una cosa simile? L’ho chiesto a un ragazzo che suona in uno dei detti gruppi. Mi ha risposto "Non so, è gratis. Ed è un modo di farsi vedere". E quanti sono coloro che sono disposti a regalare tanti diritti in cambio della gratuità di un servizio? 182’911’321. Sconcertante.
Ma torniamo al saggio. Lovink si scaglia apertamente contro la gratuità, in più di un punto. Ma vi si scaglia con un intento sbagliato a mio avviso. Egli contesta il fatto che non venga mai messo in discussione il modello economico che sta dietro al web 2.0: milioni di utenti felici e pochi che intascano tutti i soldi. Vedrebbe di buon occhio la fine dell’ideologia del free (parole sue) e la sua trasformazione in un modello economico sostenibile, che premi i dilettanti che pubblicano contenuti aiutandoli a diventare professionisti. Ora, questa secondo me è un’ottica del tutto sbagliata. Ciò che è in gioco non è il guadagno da parte dei blogger, ma la loro libertà, e la libertà delle informazioni che essi pubblicano. Nessuno garantisce che le informazioni che dette aziende hanno su di me non saranno usate contro di me prima o poi, così come nessuno garantisce che i contenuti che produco non saranno usati per fini che non approvo. O peggio, che fine farebbero i contenuti ritenuti "scomodi" da chi gentilmente mi ospita? La gratuità è un problema secondario, a mio avviso. Certo, se uno volesse guadagnarsi da vivere tenendo un blog, al giorno d’oggi incorrerebbe in numerose difficoltà. Ma reputo assai più importante che egli possa scrivere ciò che desidera, e decidere se e come distribuirlo, anche senza vedere un euro.
La parte in cui le mancanze si fanno più sentire, però, è quella in cui Lovink parla dell’Internet post-11 settembre, "condizione di libertà ma anche un rifugio per opinioni imbarazzanti", sostenendo che la svolta a destra della società sia in parte acuita dalla "struttura libertaria della rete". Ora, questo può anche essere vero, ma se la rete è libera e noi desideriamo che continui a esserlo è anche per poter esprimere liberamente le nostre opinioni, senza paura di censure. Questo ha l’effetto collaterale di dare questa facoltà anche a chi la pensa in maniera opposta a noi, ma è un compromesso che, personalmente, sono disposto ad accettare.
Prima di pensare a un modello economico sostenibile per il web 2.0, sarebbe bene garantire che le libertà di cui godiamo e per cui faticosamente lottiamo non corrano alcun pericolo. E la strada, per questo, temo sia lunga.
 
g.