We are the parrots

Posted: March 3rd, 2011 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | 2 Comments »

Gli indios Boroboro del Sud America avevano, a modo loro, risolto definitivamente ogni problema di identità: sapevano di essere allo stesso tempo esseri umani e pappagalli di una specie rosso fiammante. La loro era, nelle parole di Eisenstein, una identità sincrona.

Eisenstein usò questo aneddoto per descrivere il lavoro dell’attore ad una conferenza ufficiale dei Lavoratori del Cinema Sovietici nel 1935, che, tra l’altro, lo stava mettendo alla gogna per la sua scappatella di sei anni in Europa, Stati Uniti e Messico, finita nel ’32, e per la sua recente improduttività di artista di regime. Immaginatevi la scena.

Ricamando sulle teorie di Meyerhold con la sua idea di montaggio, Eisenstein riteneva che l’identità del personaggio (che poi è l’identità dell’attore col personaggio) si costruisse attraverso la combinazione di elementi eterogenei – emozioni, gesti, ricordi, pensieri, pezzi di scenografia eccetera. Dai suoi primi articoli sul cinema non ha cambiato idea: l’arte è montaggio e il montaggio è conflitto – una trasformazione in “immagini” del principio dialettico.

Eisenstein sembra insinuare che i Boroboro vivono la dialettica materialista più degli artisti organici e dei commissari di partito. E infatti, con questi ultimi, non ha avuto molta fortuna.

 


Se l’idea di indentità che suggeriscono Eisenstein e i Boroboro è sincrona, allora sono post-moderni pure loro? No. Però è interessante che il loro modo di costruire l’identità sia all’opposto di quello del rivoluzionario contemporaneo, che, invece, tendenzialmente si basa sul rifiuto di ideologie dominanti. Cioè, su un processo di identificazione al contrario.

Molto meglio sarebbe non avere affatto una identità di rivoluzionario. Anzi, visto che l’identità, rivoluzionaria o meno, altro non è che identificazione, una delle forme base della rinuncia alla libertà e all’autonomia, meglio ancora sarebbe non avere proprio nessuna identità.

Di nuovo i post-moderni.

Ma come si fa a non negoziare una identità in un sistema elastico, che tende a includere ogni deviazione?


No idea.

Però una cosa si può dire. Mentre l’identità viene soprattutto definita in relazione alla produzione (cosa faccio), ora, nei discorsi, l’accento sembra essersi spostato più che altro sul consumo (cosa compro).

Ma è solo una impressione, ovviamente: sempre di produzione si tratta.

Abbiamo l’impressione che il consumo sia fondamentale nella determinazione della nostra identità solo nella misura in cui abbiamo perso il contatto con la produzione e con lo sfruttamento reali. Produzione e sfruttamento che “esternalizziamo” continuamente, con la complicità dei media, oltre i nostri confini, nazionali e privati.

In questo scenario non è facile riconoscere che attraverso il consumo (non importa se di prodotti dominanti o alternativi) non acquistiamo nessun pezzo di identità. Non solo può essere sbagliato in senso sociale, ma non funziona neanche a livello personale.

Politicamente, il punto non è tanto che siamo passivamente assorbiti in una struttura ideologica, ma il fatto che diamo attivamente il nostro assenso ad un modello di produzione.


Prendiamo questo esempio dal documentario Food, Inc. di Robert Kenner e Elise Pearlstein. Ogni volta che scegliamo un prodotto è come se stessimo facendo un referendum democratico sulla produzione. Vero. Di conseguenza, con azioni organizzate, si può arrivare a piegare colossi come WallMart a adottare prodotti ecosostenibili. Vero anche questo.

Quello che non funziona in questa tesi è che WallMart resta in piedi. In una versione moderna del paradosso della nave di Teseo, anche se centinaia di campagne forzassero WallMart a sostituire tutti i suoi prodotti e se alla fine arrivasse a vendere solo prodotti ecosostenibili, WallMart avrebbe sempre lo stesso potere di monopolio – a livello delle relazioni di produzione, sarebbe esattemente identico a com’era prima.

Generalizzando, ma ci sarebbe altro da dire, ogni azione a livello della sovrastruttura implica un discorso sull’identità, mentre ogni azione a livello della base richiede di andare oltre all’idea di identità.

Ovvero, porre il problema del consumo come una questione di identità (come fanno indifferentemente le logiche del branding e molti gruppi di opposizione di vario tipo), al massimo permette di riconoscere la posizione del consumatore e il suo potere all’interno del sistema, ma allo stesso tempo lo priva di ogni potere reale sul sistema.

 


Allora cosa c’entrano i pappagalli?

Loro, niente. Quello che c’entra è la dialettica, nel senso tutto particolare che le dava Eisenstein all’interno della creazione artistica. La dialettica che è quel processo dinamico e paradossale che ci permette di essere pappagalli e uomini allo stesso tempo e attraverso cui possiamo percepire e, dunque, superare, i legami e le barriere che si impongono al nostro pensiero e alla nostra esperienza sociale per indirizzarli verso il cambiamento.

Carlo


Utopia dell’educazione

Posted: January 21st, 2011 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | Comments Off on Utopia dell’educazione

Come un nonluogo consiste in un luogo privo di relazioni sociali, il nontempo è un tempo privo di storia. E’ l’idea di tempo caratteristica di quello che in passato si sarebbe chiamato un ordine cosmico immutabile, e che oggi è l’ordine globale.

L’idea di nontempo implica prima di tutto che il presente non possa cambiare.  In questo senso il nontempo, come tempo privo di dialettica, è il risultato di quella che Fukuyama chiama fine della storia: l’impossibilità (materiale o solo ideologica) di andare oltre al sistema democratico e liberista.

Che interesse ha, in sé, il concetto di tempo all’interno dell’ordine globale? Onestamente, non molto. Anche per questo l’ultimo libro di Marc Augé sembra avere un titolo tirato per i capelli: Où est passé l’avenir?

Sono più interessanti alcune considerazioni su argomenti vari, legati più all’idea di cultura come natura (70) che al concetto di nontempo: la globalizzazione come sistema ideologico, il senso e la contestazione nella società, nell’arte e nella critica della cultura, e quella che Augé chiama l’utopia dell’educazione.

Augé parla della globalizzazione come di una “ideologia della globalità senza frontiere”, che produce allo stesso tempo uniformità ed esclusione (33).

In forza della sua egemonia ideologica il globale è vissuto come interno, familiare, sensato, mentre il locale è considerato esterno al sistema, deviante. Per lo stesso motivo, il locale è l’unica possibile fonte di contestazione e anche di “storia”, che Augé tratta come sinonimi (35).

E’ anche evidente, però, che ogni comunità locale ha bisogno di negoziare un accesso al sistema globale per poter esercitare la propria influenza, in certi casi, per negoziare la propria stessa esistenza. Ma nel momento in cui una comunità locale(se si vuole, una sub-cultura) accede ai media accede necessariamente anche alle ideologie che gli danno forma.

Ed è, io credo, questo rapporto di dipendenza dei gruppi locali verso le strutture globali di comunicazione che costituisce l’imporsi stesso del sistema e che determina l’ambiguità di quelle forme di contestazione, politica, intellettuale ed artistica, che spesso rimangono, secondo Augé, “prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero alle quali si oppongono” (12).

I media diventano quindi la scena in cui avviene lo scontro tra conformismo e contestazione. Più ancora, i media possono essere identificati con il sistema stesso, in quanto codificano il rapporto tra società e individuo: “[…] i media svolgono oggi il ruolo che un tempo spettava alle cosmologie, alle visioni del mondo che sono allo stesso tempo visioni della persona e che creano un’apparenza di senso legando strettamente i due punti di vista. […] L’indispensabile necessità di dare senso all’universo, che Lévi-Strauss lega all’apparizione del linguaggio, si è attuata con l’imposizione sulla realtà del mondo di una logica simbolica applicata anche alle relazioni tra gli umani” (40).

In altre parole, abbiamo bisogno di ideologie – di sistemi di pensiero – per dare senso alle nostre esperienze, ma nella misura in cui l’ideologia determina a priori il senso delle nostre esperienze, riconducendole ad un universo di convenzioni, essa è anche il limite fondamentale all’espressione libera del pensiero di ogni individuo e il primo strumento del controllo sociale. In un modo simile Augé pone il “senso”, in quanto significato codificato da una cosmologia dominante, essenzialmente contro la storia, la creatività, la libertà e la scienza.

I media sono, in questi termini, un sistema di “senso”, un “mondo dell’immanenza nel quale l’immagine rimanda all’immagine e il messaggio al messaggio; mondo da consumare subito, come i bignè alla crema [come i fulmini, éclairs]; mondo da consumare ma non da pensare; mondo dove si possono attivare procedure di assistenza ma dove non è possibile elaborare strategie di cambiamento” (28). Sono l’applicazione del modello di consumo ai discorsi e alle relazioni sociali.

Allo stesso modo, anche nell’arte il sistema globale si impone come sistema di “senso”: nelle parole di Augé, “il primato del codice, che prescrive i comportamenti [… e] costruisce le relazioni, ha effetti pesanti sulle condizioni della creazione. Il mondo che circonda l’artista e l’epoca in cui vive gli si palesano solo in forme mediatizzate – in immagini, avvenimenti, messaggi – che sono esse stesse effetti, aspetti e motori del sistema globale” (49-50). Col risultato che l’arte, invece di distruggere le evidenze della cultura in cui prende forma si riduce ad una mera espressione del suo contesto. La massima aspirazione per l’opera d’arte diventa così acquisire “pertinenza” al suo contesto politico e sociale invece di ambire ad una “presenza” come forza di destabilizzazione (52).

L’arte propriamente detta prende quindi le distanze dal contesto, si oppone al senso, comune e non comune, e si distacca dagli apparati materiali che ne condizionano la produzione, così come da quelli ideologici che ne influenzano le forme e, molto spesso, ne determinano i contenuti.

In ultima analisi, il livello di azione più profondo del sistema globale rimane quello dei rapporti tra l’individuo e la comunità, già affrontato da Augé nella costruzione del concetto di nonluogo: “l’identità individuale non è definibile, pensabile e vivibile se non in relazione con altri. Ma anche il senso sociale a sua volta si smarrisce se l’individuo si dissolve nel conformismo, nell’omogeneità, nell’allineamento. L’individualità si realizza dunque nella solidarietà, ma noi sappiamo anche che questa realizzazione, nelle sue forme più alte (l’amore, l’amicizia) non ha bisogno di un quadro istituzionale. La forma sociale ottimale (che concilierebbe senso e libertà) sarebbe allora quella che consentirebbe a tutti gli individui di realizzarsi liberamente senza isolarsi” (103-104).

Questa forma sociale, che Augé cautamente non nomina, è l’anarchia.

E per l’attuazione di questa forma sociale, che richiede il coraggio di ogni individuo di confrontarsi con la propria libertà (104), il primo passo sta in quella che Augé chiama “utopia dell’educazione”. Un progetto che deve ridistribuire la conoscenza come presupposto della giustizia sociale e come essenza del progresso sociale.

Una utopia, l’unica, che può essere “riformista nel metodo”, in quanto “ogni iniziativa puntuale, locale, può essere considerata come un passo nella giusta direzione, non come un tradimento dell’ideale” e perché, in merito all’educazione, nessun risultato è trascurabile (108). Il sapere, infatti, è l’opposto dell’ideologia, perché non è mai totalizzante, mai immobile, sempre nutrito dalle relazioni umane.

La rivoluzione sociale dipende dunque in prima istanza da una rivoluzione sociale dell’insegnamento.

Carlo

Marc Augé (2010) Che fine ha fatto il futuro?: Dai nonluoghi al nontempo. Milano: Elèuthera.

Conclusione sull’utopia dell’educazione.


From wonderland to non-place

Posted: December 3rd, 2010 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | Comments Off on From wonderland to non-place

Un non-luogo è definito da Augé come un luogo (fisico e mentale) privo della sua dimensione sociale. Non tanto una piazza vuota, quanto una piazza dove nessuno si parla.

Un aeroporto è un non-luogo, come lo sono l’interno di un’automobile, un’autostrada, o Disneyland. Facebook è, per certi versi, un non luogo. Ogni non-luogo è lieto di offrire a tutti conformità, consumo e un caratteristico tocco neofascista.

Se è vero, come scrive Marcuse, che l’individuo può esistere solo in contrasto con la società in cui vive, in un conflitto essenziale con le norme e i valori stabiliti, i non-luoghi determinano l’opposto dell’individuo: l’uniformità, sanzionata da convenzioni più o meno repressive o ideologiche. Uniformità che è anche il contrario della libertà e dell’uguaglianza, perché per prima cosa nega l’autonomia: feed me master, tell me who I am.

Ma più ancora di questo, i non-luoghi si sottraggono come spazi di lotta. Mancando ogni possibilità di rapporto sociale, l’uomo in rivolta non può che attaccare se stesso.

The arrangement_opening sequence (Kazan, 1969).

Come al solito, mi viene da sottolineare quanto il prestigio di queste strutture sia radicato nella paura dell’autonomia, più che nella loro imposizione forzata. Ma al di là di questo i non luoghi hanno una precisa identità politica, sulla quale Augé scivola in silenzio.

Identità che invece viene colta e sfruttata in modo genial-demenziale nella campagna di subvertising di Micky Mouth, che arruola topolino nel tea party, lo fa sparare ai messicani alla frontiera e gli fa costruire un muro impenetrabile intorno al suo dominio incantato.

Non è una novità, topolino è sempre stato profondamente reazionario. Ma è una buona metafora, che coglie il livello infantile, e non per questo meno violento, del fascismo.

Disney è stato un pioniere dei non-luoghi. Ha attaccato il cuore della cultura popolare, le fiabe, e lo ha distrutto.  Con il sostegno dell’intero apparato mediatico ha colonizzato un bene comune e lo ha trasformato in un bene di consumo e in uno strumento al servizio dell’ideologia dominante.

Togliendo dalle fiabe ogni vero conflitto, le ha private del loro significato profondo e contemporaneamente della loro dimensione sociale. In questo modo Disney ha distrutto un patrimonio fondamentale di narrazioni di lotta, di cui oggi si sente la mancanza.

Le sue creature non vivono in un mondo fantastico, ma in non-luoghi. Il loro non è un mondo surreale, perché non espone la realtà per coglierne gli aspetti nascosti, la loro non è una fantasia che si oppone alle convenzioni. E’ un mondo che nasconde la realtà e, quindi, la conferma.

E non c’è solo Disney, ovviamente. L’intera mainstream della letteratura e del cinema fantastico non è più in grado di proporre visioni del mondo surreali. Passato è anche il tempo di Blade runner e High rise (in lavorazione un film) in cui i non-luoghi erano l’oggetto della fantascienza, esaminati nelle loro dinamiche e nelle loro conseguenze. Se The road forse tiene (il film, fino a prima del finale), Children of men segna il momento in cui anche la distopia arriva a confermare le convenzioni.

Dopo l’Alice coloniale di Burton, la magia disincarnata di Harry Potter, l’addomesticamento fedele del Signore degli Anelli, l’inesistente Avatar, la valanga di animazioni pixar tutte giocate sui prototipi, Gian mi segnala che questo è il prossimo cappuccetto rosso:

Se l’acqua è un bene comune, lo sono anche le nostre storie.

Una storia non può essere raccontata più di una volta senza cambiarla, non è una proprietà, ma una creazione, cioè, fondamentalmente, una creazione condivisa. Persone, luoghi e racconti hanno bisogno gli uni degli altri. E qui torniamo alla definizione antropologica di società, che è il contrario del non-luogo.

Non possono esserci storie senza luoghi in cui poterle raccontare, ma i luoghi stessi, senza storie, non esistono.

Carlo


Servo arbitrio

Posted: February 16th, 2009 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | Comments Off on Servo arbitrio

Appunti da Herbert Marcuse, L’autorità e la famiglia, Einaudi, Torino 1960.

Dal 1930 lInstitut für Sozialforschung con Horkheimer, Marcuse e Fromm attraverso gli Studien über Autorität und Familie favorisce una apertura agli studi sulla psicologia individuale della critica sociale d’impostazione marxista .

Partendo dal presupposto che “coesione e sopravvivenza degli ordinamenti sociali non sono spiegabili con puri fattori economici né con l’opera della violenza” l’Institut si proponeva di indagare il rapporto dialettico “che connette il reale dominio di classe con la sua interiorizzazione nella psiche individuale e collettiva e con la sua legittimazione in forma di ideologia politica, filosofica o religiosa”.

Il contributo di Marcuse agli Studien si concentra sull’analisi del rapporto autoritario, e dunque dei concetti di libertà e di illibertà all’interno della filosofia borghese.

Alcuni elementi che sono entrati a far parte in modo stabile del concetto borghese di libertà vengono fatti risalire da Marcuse al pensiero di Lutero. Scondo il pensiero di Lutero, nella società borghese la libertà è assegnata alla sfera interna della persona, all’uomo interiore, mentre l’uomo esteriore, l’uomo come soggetto sociale, è assoggettato al sistema delle autorità mondane.

Ma la libertà che Lutero riconosce agli uomini è tanto assoluta da non poter produrre “nessuna azione e nessuna opera quale sua libera attuazione e realizzazione”. L’individuo viene così esautorato dalla prassi sociale, viene esonerato dalla  “responsabilità per la propria prassi in una misura fino allora ignota”.

Questa forzata separazione tra sfera pubblica e privata dell’individuo proposta da Lutero, mentre sembra rivendicare un baluardo inalienabile di libertà, incondizionata dalla realtà sociale, in realtà viene usata per giustificare l’illibertà e l’ineguaglianza reali. La non necessità di confrontare la libertà interna con la realtà sociale è infatti usata per dimostrare che l’individuo non ha potere e non ha diritto a giudicare l’autorità esterna: “l’ordine esteriore è commisurato interamente ai criteri a cui sono soggetti la prassi e le opere, staccate dalla persona”, il diritto è immanente alla sfera delle autorità mondane e non può essere giudicato dai singoli individui.

Dunque, riconoscere la libertà dell’uomo come un a priori interno, come un valore assolutamente indipendente dalla realtà sociale, preclude ogni possibilità di influire sulla società in modo da renderla effettivamente più libera: al contrario, “se l’illibertà esterna può compromettere l’essere autentico dell’uomo, se della libertà o illibertà dell’uomo si decide nella prassi sociale e non in astratto, allora l’uomo è libero da Dio e può diventare libero per se stesso nel significato più pericoloso del termine”.

Per Lutero dunque, come poi per Calvino, “la libertà cristiana non solo non presuppone il libero arbitrio, ma lo esclude”.

Un’altra questione sollevata da Marcuse, e relativa alla riproduzione delle strutture di potere, è quella della famiglia.

Per Lutero l’inevitabile sottomissione degli individui ad una autorità sociale deve essere preparata attraverso l’onore tributato dai bambini alla madre e, soprattutto, al padre: “il comandamento impone di onorare i genitori affinché la caparbietà dei bambini sia piegata, ed essi diventino umili e miti”.

Calvino individua invece nell’educazione in seno alla famiglia una funzione
psicologica più sottile. Poiché l’animo e la mente umane mal sopportano la sottomissione, essi sono abituati dolcemente a sottomettersi attraverso l’accettazione dell’autorità dei genitori, alla cui tutela tutti i bambini sono sottoposti e che “per natura è più delle altre oggetto di amore, e meno di ostilità”. “Ben
di rado”, commenta Marcuse, “la funzione sociale della famiglia nel sistema delle autorità borghesi è stata formulata in modo più chiaro”.

A partire dalla famiglia dunque, la scuola di Francoforte propone di negare questa divisione tra sfera privata e sfera sociale dell’individuo, aprendo la strada a una serie di studi sulla reciproca influenza dell’autorità esterna e internalizzata. Purtroppo, una direzione di studi che spesso si è richiusa su posizioni riduttive (la realtà esterna condiziona quella interna, punto), mentre la divisione fra le due sfere rimane ancora alla base di numerosi costrutti ideologici, più o meno fascisti o riformatori.


Carlo


Sunday afternoon

Posted: September 3rd, 2008 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | Comments Off on Sunday afternoon
 
 Sono negli States da un mese, e non avevo ancora ceduto.
Ma qui nessuno ci fa caso, nessuno lancia guerre alle multinazionali, se le compagnie petrolifere sono cattive è perchè il prezzo della benzina è troppo alto, se mi compro l’auto ibrida è perchè la benzina costa troppo, con buona pace del riscaldamento globale. Tempo fa era stata tracciata una linea in città, a demarcare quali villette si sarebbero salvate e quali sarebbero state sommerse dall’innalzamento del livello dell’oceano a seguito dello scioglimento dei ghiacci polari… ma ora è stata cancellata, qualcuno si sarebbe potuto allarmare…
Tra uno starbucks e l’altro, ce ne sarà uno ogni cento metri, decine di homeless chiedono l’elemosina. Sono tutti americani tutti bianchi, in maggioranza hanno superato la cinquantina. In un paese in cui lo stato sociale non esiste, non passa neanche per la testa di aiutarli concretamente… il passante di turno allunga "one buck", un dollaro, avanzato dall’acquisto di un panino grondante colesterolo, come premio per un’esibizione musicale… poco più avanti un altro senzatetto, cartello di cartone con chitarra sbarrata e scritta "sorry, no talent". Nessuno straniero a chiedere l’elemosina, qui per entrare uno deve avere un permesso di lavoro, la povertà pare riservata a chi ha la cittadinanza. Mi domando se sia un’eccezione, questa della "American Riviera", o se sia così in tutto il paese. E c’è ancora chi, per ringraziare il proprio paese del trattamento, erige sculture di sabbia raffiguranti marines sulla spiaggia.
Sto seduto su una panchina, in una strada in finto stile coloniale spagnolo, un hot dog nella mano, un bicchiere nell’altra. Non sono riuscito a dire di no agli occhioni neri della cassiera, che non concepiva il fatto che potessi rifiutare una bevanda gratis.

Parafrasando Godard: siamo figli di Marx e della Coca Cola.

Primas

Posted: July 5th, 2008 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | 5 Comments »

 

Dopo la sconfitta con l’Olanda, Gianluigi Buffon, portiere della nazionale italiana, ha chiesto scusa agli italiani per la prestazione deludente. Il C.T. della Francia Raymond Domenech ha fatto la stessa cosa dopo l’eliminazione da parte dell’Italia. De Rossi, che ha sbagliato un rigore decisivo nei quarti di finale contro la Spagna, ha chiesto anche lui scusa agli italiani per l’errore.

Questo fatto, come pochi altri è sintomatico di quello che rappresenta il calcio oggi. Siamo ormai abituati al fatto che, se gioca la nazionale in tornei ufficiali ( cioè fra mondiali e europei ogni due anni ), la sera della partita succedono cose straordinarie: se si va nei vicoli genovesi si può capire passo per passo come procede l’incontro in qualunque momento e luogo, giacché è difficile che nello spazio uditivo di una persona non vi sia neanche un cittadino che guarda la partita ( e di solito comunque la partita
la si guarda in gruppo: essa è un fatto collettivo ). Siamo abituati a questo e a altro: e da questa abitudine ha origine l’odio, che prende le forme dello snobismo, di tanta gente che vuole male alla nazionale di calcio italiana, considerando il calcio il panem et circenses della società moderna; uno strumento del potere insomma.

E con ragione: gli italiani discutono del modulo mentre il presidente del consiglio fa leggi discutibili sui processi che lo riguardano e sull’uso di intercettazioni nelle indagini; e queste leggi sono discusse meno perché si discute più di Donadoni e Cassano, evidentemente.

Forse, però non eravamo abituati alle scuse agli italiani.

Difatti, chiedere scusa pubblicamente a qualcuno può implicare, in generale, due cose: o l’aver fatto del male involontariamente a qualcuno ( nella teoria se hai fatto del male volontariamente non chiedi scusa, la tua è stata una scelta e si presume che tu abbia
fatto questa scelta consapevolmente, per cui non sei pentito); oppure si chiede scusa perché si ha tradito la fiducia di qualcuno: poiché è indubbio che Buffon o Domenech non si sentano responsabili di aver commesso qualche un qualche male “agli italiani”, allora le loro scuse si possono interpretare nel senso che pensano di aver tradito la fiducia degli italiani.

Ora, a parte il fatto che “la fiducia degli italiani” è frase che ha pronunciato qualunque uomo eletto “dagli italiani”, si può dire che in effetti in nessun luogo nessuno ha mai espresso attraverso un atto pubblico la fiducia degli italiani verso la nazionale di calcio: e ciò anche se è evidente che un’iniziativa del genere andrebbe incontro ad un grande successo.

Il fatto è che in teoria le “scuse agli italiani” le fa chi ha tradito una fiducia espressa da gli italiani e in teoria una fiducia di questo tipo rientra nell’ambito politico e solo in quello. Le scuse agli italiani le fa il politico corrotto: gli italiani avevano fiducia in lui perché amministrasse bene la cosa pubblica e se il bene è opinabile ( c’è parecchia gente che continua a considerare, per esempio, buona la dittatura fascista ) non lo è l’onestà: Craxi ripeté più volte di aver rubato non per sé ma per il partito ( considerando evidentemente questa una buona ragione ), ma anche se parecchi sottoscriverebbero questo ragionamento, è evidente che in ogni caso la “fiducia degli italiani” era stata tradita.

Corruzione a parte, furono richieste scuse agli italiani quando, nel 1878 i diplomatici italiani alla Conferenza di –Berlino tornarono da quella conferenza senza nessun acquisto coloniale ( l’obiettivo minimo era la l’acquisto della Tunisia, così come per la nazionale italiana era l’accesso alle semifinali) e con le “mani nette” , espressione con cui il fatto passò alla storia.

In quel caso l’ala nazionalista si fece portavoce unico della “volontà nazionale”, e pretese le scuse agli italiani ( e in seguito l’allora primo ministro Benedetto Cairoli si dimise ): oggi chi fa il portavoce unico della “volontà nazionale” è la nazionale di calcio, e se fallisce, chiede scusa agli italiani ( e in effetti Donadoni è stato rimosso dal suo ruolo ).

Così, se per esempio un ministro, membro dell’esecutivo eletto dagli italiani, e quindi con un chiaro mandato di fiducia degli stessi, viene inquisito per questioni di corruzione, l’intera Camera dei Deputati lo applaude; ma il capitano della Nazionale di Calcio, se ha perso una partita, si sente in dovere di chiedere scusa “agli italiani”.

Ne si deduce che il mandato morale del “popolo italiano” verso gli “azzurri” è incomparabilmente più forte di quello politico, effettuato tramite elezioni, che il “popolo italiano” trasmette al governo.

Così, se è certo che nessun uomo politico italiano ha mai fatto delle scuse “agli italiani”, lo ha fatto Buffon per una partita persa: e il bello è che è stata quella di Buffon una cosa dovuta, la gente quasi se lo aspettava.

Mentre non so quanti italiani si siano mai aspettati delle scuse – per fare solo un esempio – da Cossiga per aver fatto parte della GLADIO; eppure era il Presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni che confessava di aver agito contro la legge.

 

Stefano