Welcome to the island of the real

Posted: March 23rd, 2011 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Welcome to the island of the real

The Naked Island (1960) di Kaneto Shindo non è un film allegro, né leggero. Per un’ora e mezza, senza un’ombra di dialogo, vediamo una donna e un uomo raccogliere acqua lungo un fiume e portarla in barca sull’isola dove vivono per irrigare qualche misero pezzo di terra arrampicato sulle alture. Li vediamo ignorare amorevolmente i loro figli piccoli che faticano quanto loro, sorridere, appena, quando uno dei bambini pesca un pesce che possono vendere al mercato e finalmente piangere, e poi ricominciare da capo, quando il figlio maggiore muore.

Se questa storia spaccacuore  e senza scampo merita ancora di essere riproposta nei cinema d’essai è per via della chiara denuncia che fa della condizione femminile, nel Giappone dell’epoca, e perchè evoca allo stesso tempo i due volti della fatica – quello fascista del sacrificio e quello operaio della dignità e della resistenza attraverso il lavoro. E in questo è reale e, riflettendoci in un secondo momento, meno retorico dell’apparenza e, probabilmente, delle sue intenzioni.

L’isola nuda, l’isola senz’acqua che la famiglia coltiva per conto di un padrone silenzioso e distante è definita innanzitutto come il luogo limite dello sviluppo: “coltivare sempre di più, coltivare sempre più in alto”, in luoghi sempre meno umanamente accessibili. Uno sviluppo che era sostenibile allora come oggi solo perché sorretto dalla fatica allucinante dei contadini. Per noi, occidentali e borghesi, questa fatica oggi come in passato ha sempre parlato un’altra lingua – il dialetto, l’arabo, il cinese.

Poi, nei deliranti minuti dedicati ai viaggi avanti e indietro sulla barca, su e giù per la montagna, tutto per portare quattro secchi d’acqua al campo, il film vira sul metafisico. Dal soggetto politico della fatica contadina all’universale frustrazione di fronte alla realtà che, zizekianamente, è deserto del reale. Qui sta la dignità della famiglia di contadini. Loro creano, fanno crescere. E tuttavia la loro lotta, nobile, contro la loro condizione corrisponde nell’orizzonte chiuso dell’oppressione alla riproduzione del sistema che li opprime.

Il film distingue tra la sofferenza della donna e il silenzio dell’uomo, che la picchia quando è troppo stanca per lavorare e che continua a coltivare in silenzio, oltre il dolore e senza il minimo accenno di rivolta. E qui il discorso è critico (nel denunciare la famiglia patriarcale giapponese) e convenzionale allo stesso tempo (nell’assegnare ruoli fissi all’uomo e alla donna). Pure, questi ruoli fissi fanno parte dell’oppressione che i contadini subiscono e, in fondo, essi stessi non conoscono altri modi di subire le loro disgrazie.

In definitiva, The Naked Island è un film che ti fa venire voglia, appena uscito dal cinema, di andare a vedere Rango. Il che la dice lunga su quanto ci piaccia stare lontano dalla realtà.

 

Carlo


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