We are the parrots

Posted: March 3rd, 2011 | Author: | Filed under: La Sortie de l'école | 2 Comments »

Gli indios Boroboro del Sud America avevano, a modo loro, risolto definitivamente ogni problema di identità: sapevano di essere allo stesso tempo esseri umani e pappagalli di una specie rosso fiammante. La loro era, nelle parole di Eisenstein, una identità sincrona.

Eisenstein usò questo aneddoto per descrivere il lavoro dell’attore ad una conferenza ufficiale dei Lavoratori del Cinema Sovietici nel 1935, che, tra l’altro, lo stava mettendo alla gogna per la sua scappatella di sei anni in Europa, Stati Uniti e Messico, finita nel ’32, e per la sua recente improduttività di artista di regime. Immaginatevi la scena.

Ricamando sulle teorie di Meyerhold con la sua idea di montaggio, Eisenstein riteneva che l’identità del personaggio (che poi è l’identità dell’attore col personaggio) si costruisse attraverso la combinazione di elementi eterogenei – emozioni, gesti, ricordi, pensieri, pezzi di scenografia eccetera. Dai suoi primi articoli sul cinema non ha cambiato idea: l’arte è montaggio e il montaggio è conflitto – una trasformazione in “immagini” del principio dialettico.

Eisenstein sembra insinuare che i Boroboro vivono la dialettica materialista più degli artisti organici e dei commissari di partito. E infatti, con questi ultimi, non ha avuto molta fortuna.

 


Se l’idea di indentità che suggeriscono Eisenstein e i Boroboro è sincrona, allora sono post-moderni pure loro? No. Però è interessante che il loro modo di costruire l’identità sia all’opposto di quello del rivoluzionario contemporaneo, che, invece, tendenzialmente si basa sul rifiuto di ideologie dominanti. Cioè, su un processo di identificazione al contrario.

Molto meglio sarebbe non avere affatto una identità di rivoluzionario. Anzi, visto che l’identità, rivoluzionaria o meno, altro non è che identificazione, una delle forme base della rinuncia alla libertà e all’autonomia, meglio ancora sarebbe non avere proprio nessuna identità.

Di nuovo i post-moderni.

Ma come si fa a non negoziare una identità in un sistema elastico, che tende a includere ogni deviazione?


No idea.

Però una cosa si può dire. Mentre l’identità viene soprattutto definita in relazione alla produzione (cosa faccio), ora, nei discorsi, l’accento sembra essersi spostato più che altro sul consumo (cosa compro).

Ma è solo una impressione, ovviamente: sempre di produzione si tratta.

Abbiamo l’impressione che il consumo sia fondamentale nella determinazione della nostra identità solo nella misura in cui abbiamo perso il contatto con la produzione e con lo sfruttamento reali. Produzione e sfruttamento che “esternalizziamo” continuamente, con la complicità dei media, oltre i nostri confini, nazionali e privati.

In questo scenario non è facile riconoscere che attraverso il consumo (non importa se di prodotti dominanti o alternativi) non acquistiamo nessun pezzo di identità. Non solo può essere sbagliato in senso sociale, ma non funziona neanche a livello personale.

Politicamente, il punto non è tanto che siamo passivamente assorbiti in una struttura ideologica, ma il fatto che diamo attivamente il nostro assenso ad un modello di produzione.


Prendiamo questo esempio dal documentario Food, Inc. di Robert Kenner e Elise Pearlstein. Ogni volta che scegliamo un prodotto è come se stessimo facendo un referendum democratico sulla produzione. Vero. Di conseguenza, con azioni organizzate, si può arrivare a piegare colossi come WallMart a adottare prodotti ecosostenibili. Vero anche questo.

Quello che non funziona in questa tesi è che WallMart resta in piedi. In una versione moderna del paradosso della nave di Teseo, anche se centinaia di campagne forzassero WallMart a sostituire tutti i suoi prodotti e se alla fine arrivasse a vendere solo prodotti ecosostenibili, WallMart avrebbe sempre lo stesso potere di monopolio – a livello delle relazioni di produzione, sarebbe esattemente identico a com’era prima.

Generalizzando, ma ci sarebbe altro da dire, ogni azione a livello della sovrastruttura implica un discorso sull’identità, mentre ogni azione a livello della base richiede di andare oltre all’idea di identità.

Ovvero, porre il problema del consumo come una questione di identità (come fanno indifferentemente le logiche del branding e molti gruppi di opposizione di vario tipo), al massimo permette di riconoscere la posizione del consumatore e il suo potere all’interno del sistema, ma allo stesso tempo lo priva di ogni potere reale sul sistema.

 


Allora cosa c’entrano i pappagalli?

Loro, niente. Quello che c’entra è la dialettica, nel senso tutto particolare che le dava Eisenstein all’interno della creazione artistica. La dialettica che è quel processo dinamico e paradossale che ci permette di essere pappagalli e uomini allo stesso tempo e attraverso cui possiamo percepire e, dunque, superare, i legami e le barriere che si impongono al nostro pensiero e alla nostra esperienza sociale per indirizzarli verso il cambiamento.

Carlo


2 Comments on “We are the parrots”

  1. 1 thx said at 23:32 on March 3rd, 2011:

    molto interessante, grazie
    a proposito di pappagalli:
    “William buys a parrot” di Anthony Balch, con William S. Burroughs, 1963 – http://www.ubu.com/film/burroughs_parrot.html

  2. 2 anarcosurr said at 21:29 on March 17th, 2011:

    grazie a te, non conoscevo ubuweb ed è stata una bella scoperta!