Melting the pot

Posted: April 7th, 2012 | Author: | Filed under: La chambre d'écoute | Comments Off on Melting the pot

24 marzo, altro concerto della serie Banlieues Bleues, questa volta a Saint Denis. Più che degradato sembra soltanto deserto, un quartiere di palazzoni di vetro e di cemento, alcuni fatti di plastica, poco più che prefabbricati. Saranno tutti a Parigi per la festa del sabato sera, ma le strade sembrano di quelle nate per restare vuote, lasciate alle bagnoles e perse in una urbanistica senza centro. Pulite, però, le piazze almeno – rappresentanza della Nazione. I servizi ci sono, mimetizzati nel paesaggio industriale: una università, pubblica, che sembra un centro commerciale, un mercato coperto che sembra un silos, un asilo, cartelli stradali per l’ospedale… Almeno per il momento.

Tra qualche giorno arriverà in zona Fréderic Mitterand, ministro della cultura e della comunicazione, e una militante raccoglie firme per protestare contro i tagli alla cultura – presto chiuderanno un teatro a pochi isolati da dove ci troviamo. Firmo, chissà che valga anche la firma di un italiano.

Tristezza a parte, siamo qui per ascoltare Ray Lema, un pianista congolese di cultura e influenza internazionale e Jupiter Bokonji & Okwess International scoperta del rock alternativo in Congo, portato alla ribalta in europa dal documentario Jupiter’s Dance di Renaud Barret e Florent de La Tullaye. Nota di gusto, l’organizzazione ha pure predisposto un banco che vende bevande varie e qualche piatto tipico africano, preparato e servito da donne migranti. Dividiamo un piatto di pollo. Ho appena finito di leggere Things Fall Apart di Chinua Achebe, e anche se non centra molto con il foo-foo delle ultime tribù “non pacificate” del basso Niger, tutto si confonde benevolmente e mi preparo ad ascoltare il suono metallico dell’ogene.

Aspettativa ampiamente superata dal concerto di Lema, che ha arrangiato insieme musicisti e strumenti delle più diverse tradizioni: Henri Dorina, un bassista elettrico di scuola blues, Ray Lema, un pianista Jazz minimale e di radici sonore africane, Tshimanga Mwamba e Tandjolo Yatshi, due percussionisti “etnici”, Viviane Arnoux, bandeoneonista francese, Djitumba Tumba Ngalula Cécile, una cantrice popolare, e per finire due giovanissimi rappettari congolesi, alle prima armi ma con entusiasmo a palate, dal nome collettivo di KMS Pascifhik. Ho dimenticato Freddy Massamba, cantante dalla potenza vocale e dalla presenza scenica così potenti da ricordare l’omonimo Mercury e risultare fuori luogo in un teatro chiuso. Anche solo la vista del palco è eclettica, figuratevi il suono, che resta agile in ogni momento e perfettamente amalgamato.

Due righe intellettualoidi a mo’ di intermezzo. L’idea di melting pot, tanto cara agli americani, dietro un’apparenza di multiculturalismo liberale (sempre pronta a cadere sotto i colpi di pistola del mai morto Jim Crow), è in realtà spregevolmente imperialista. Tutte le culture si fondono, è vero, ma all’interno del contenitore imposto dall’egemonia del capitalismo bianco, cristiano e occidentale. La temperatura del metallo fuso, per definizione, non è mai abbastanza alta da fondere il contenitore e così il risultato è una omologazione invece di una moltiplicazione della varietà. Il jazz di Lema, al contrario, non funziona come contenitore ma come un luogo di incontro, ogni momento di cultura musicale esiste per intero e si combina con gli altri indipendentemente.

Delusione invece, sul momento, la seconda parte della serata – il concerto di Jupiter e Okwess International. Forse in un’altra occasione avrei apprezzato di più la violenza del gruppo – qualcosa tra l’indie rock e lo ska, africano, a Parigi, di certo meritava più entusiasmo da parte mia. Ma mi sono spento sul nascere, per chiusura ideologica lo ammetto, appena ho visto che Jupiter era in divisa da militare e la cantante del gruppo sfoggiava un incrocio tra maquillage mimetico e pitture tribali di guerra. L’incomprensibilità dei testi mi ha ulteriormente confuso. Comunque, la performance è stata sempre potente, con larghe concessione alla danza (quasi alla dance) e una tendenza ad usare tutti gli strumenti come percussioni. Un po’ ripetitiva, ma ritmicamente incandescente – gli ultimi pezzi più complessi dei primi, con mia maggiore soddisfazione. In ogni caso rimane un ottimo esempio di appropriazione di forme musicali occidentali, in stile melting pot (gli strumenti tradizionali presenti sul palco ma soffocati da chitarre e batteria) – ma dovrei vedere almeno il documentario per farmi un’idea della sua temperatura politica.

 

 

 

 

 

Carlo (testo e foto), Valentina (foto)


L’anima buona di Freddy Krueger

Posted: March 30th, 2012 | Author: | Filed under: La chambre d'écoute | Comments Off on L’anima buona di Freddy Krueger

Mai visto un confine così netto tra campagna e città: a sinistra campi vasti e scuri, a destra un muro e le schiene senza finestre di casette di periferia, classe media, piccole fortezze vuote separate da siepi. In mezzo una strada, le due corsie divise da un’aiuola per impedire i sorpassi.

In questo scenario quotidiano e po’ schizoide la Salle de Fêtes Jacques Brel a Gonesse stava come un punto, segnato col neon, in mezzo al nulla – forse perchè lo cercavamo da un’ora e mezza, forse perché lo immagino come l’unico luogo di incontri di quello che era un paese, ora inghiottito dalla periferia. Anche se probabilmente gli anziani non ci ballano più il liscio, e il programma dei concerti che ospita questa sala sperduta potrebbe competere con l’insieme dei teatri genovesi.

Quella sera erano la Kočani Orkestar con la banda zigana Taraf de Haïdouks per Banlieues Bleues, un festival che porta blues, jazz e rock da tutto il mondo nella periferia di Parigi – uno sforzo doveroso contro la centralizzazione della metropoli. Poche sedie in sala e un grande spazio aperto davanti al palco: cattiva organizzazione, si mormora, anche se poi tutti tranne i più anziani si alzeranno per ballare.

Un momento di sconcerto nel silenzio all’inizio della serata, complice qualche problema di amplificazione, quando i due violinisti della banda Taraf scaricano i primi accordi, allegramente dissonanti. Un boato all’ingresso della brass band macedone. Romeni e gitani, nel pubblico, insieme ad una truppa di anarcoidi parigini (detto con affetto) che incitano con grida e balli e conoscono tutti i pezzi a memoria. Cigani! Juris!

Tutto questo liberatorio fracasso, contenuto nel Salon Brel, a sua volta contenuto nel nulla. E in mezzo all’orchestra, zitto e immobile, il violino sul fianco, un vecchio musicista che aveva una vaga somiglianza fisica con il personaggio horror di Wes Craven: l’anima buona di Freddy Krueger. Si alza a cantare un paio di pezzi, goliardici e incomprensibili, sembra portarsi dietro tutta una vita nei bordelli da Constanta a Split, passata con dignità enorme. Saluta per mezz’ora, letteralmente, alza le braccia al pubblico e vorrebbe stringere la mano a tutti, e poi saluta di nuovo. Sembra che debba fare il suo ultimo concerto.

Dopo il primo bis, l’Orkestar entra in sala dall’uscita antincendio e si mette a suonare in mezzo agli spettatori. Una ragazza al limite del coma etilico, tutta tremante e saltellando come un folletto mi piomba sul piede. Succede anche questo. Poi, rientrati dietro le quinte e richiamati ancora sul palco a forza di applausi, un gruppetto di suonatori della Kočani provano un pezzo un po’ più lento per mandare tutti a casa, ma non ci credono neanche loro e la musica torna veloce come prima.

Finisce presto, il concerto, perché per rientrare la strada è lunga. C’è chi rientra a piedi nelle case di periferia, chi nelle macchine verso box che costano come appartamenti e chi prende una navetta fino alla stazione della RER, i treni extraurbani dei pendolari della grande ville, ora deserti. Sul binario c’è un addestratore di cani con la faccia da adolescente e al guinzaglio un cane poliziotto, la museruola che gli arriva agli occhi, triste e iperattivo. Ecco un altro che se ne va nella notte insieme ai gitani e all’anima buona di Freddy Krueger.

 

Carlo (testo), Valentina (foto)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Il posto delle fragole

Posted: March 24th, 2012 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Il posto delle fragole

Io, Antonius Block, gioco a scacchi con la morte.

In più di un senso il potere è come la morte: perché non può che distruggere, perché cerca e provoca la stasi, perché è onnipresente e può permettersi di barare sulle regole del gioco. Non solo è un’ostacolo alla libertà, ma anche alla conoscenza – come dice la morte nel film di Bergman, anche il potere dice: non ho bisogno di sapere.

Quando il potere non comprende, o finge di non comprendere, in quel momento esercita il massimo del potere. Il silenzio di dio, quindi, la sua incolmabile distanza dagli esseri umani, grande tema del Settimo Sigillo, altro non è che il discorso muto del potere. Block non si rende conto che il dio che lui cerca nella sua malinconia trascendentale e che sembra non rispondergli è in realtà la morte che gli sta a fianco e che lo sta ingannando.

Block è un nostalgico, oltre che un credente: la sua ribellione, il suo scetticismo e il suo desiderio di conoscenza, che superficialmente ne fanno una grandiosa figura di ribelle, si trasformano invece negli strumenti di una autoillusione. Quando, sulla collina inseme alla famigliola di artisti girovaghi e madonnari, Bibi Andersson gli allunga latte e un cesto di fragole, gli sta offrendo il simbolo di una vita a cui Block non ha mai partecipato. Per Bergman, la rivolta dell’uomo affonda nella nostalgia dei luoghi perduti, nell’infanzia – le fragole condivise sulla collina in mezzo all’Inghilterra all’alba dell’apocalisse sono le stesse del melanconico professor Isak Borg ne Il posto delle fragole.

Ma c’è chi le fragole le coltiva. Mentre Block (un soldato dopo tutto) era alle crociate, altri erano nei campi, nelle piazze, nei teatri, nelle scuole. Loro, a differenza del tetro cavaliere, una speranza ce l’hanno. La rivolta è meglio espressa sui campi di terra viva, che sulla scacchiera truccata di una partita contro la morte. Questo, in definitiva, è l’insegnamento più importante della lotta in Val Susa.

Gazastrophe 48:51 – 52:40.

Troppo facile, e forse pericoloso, tracciare un parallelo tra la Val Susa e la Palestina, anche se è vero che entrambi sono luoghi di resistenza. Il paragone per me si ferma allo spazio condiviso, conviviale, di Awad che offre le sue fragole, coltivate intorno a una casa più volte distrutta e ricostruita, mentre recita una poesia di Mahmud Darwish, le sue idee, anche la sua propaganda. Una scodella di fragole che ha ben altro gusto e ben altro valore della nostalgia.

Con le ultime risposte del governo alla resistenza contro il Tav in Val Susa – risposte mute e violente – quello che doveva essere chiaro a tutti fin dall’inizio ora può essere ignorato solo con un’opera di paziente autoillusione: la lotta contro l’alta velocità non è un fatto politicamente circoscritto, ma rappresenta la nuova frontiera e incarna le nuove forme dell’opposizione al potere.

A causa del sostegno acritico e incondizionato alla speculazione, prima, e, poi, al ricorso automatico alla forza di fronte al dissenso, il governo si trova ora nella situazione di non poter recedere senza determinare un pericoloso precedente. Si trova a difendere non tanto un’opera, francamente indifendibile, quanto il suo stesso arbitrio. Il discorso del potere si pone oltre ogni forma di giustificazione: je sais bien, mais quand même, come scriveva Octave Mannoni. Lo so che è una pessima idea, ma facciamolo lo stesso – significativamente, è lo stesso atteggiamento degli indifferenti, di chi non si sente coinvolto: una presa di distanza tanto facile da fare a livello personale, quanto incoraggiata dalle nostre forme sociali. Allo stesso tempo, però, è una causa sicura di suicidio per soffocamento. Una vittoria del movimento, al contrario, mostrerebbe con chiarezza che, riproposta nei luoghi della produzione, estesa contro la stessa produzione, la forma di lotta sperimentata contro il tav può essere efficace.

Il movimento no tav, più e meno consapevolmente nelle sue varie parti, conduce una lotta contro la produzione (e non per il controllo dei mezzi di produzione), per l’autogestione (e non per la gestione democratica), per i beni comuni (e non per il bene comune – che è una astrazione, e ciò che è bene per una astrazione di solito non è bene per nessuno). In più, è una lotta fondamentalmente non violenta. E’ una vera lotta anarchica, giocata non solo contro il potere, ma contro la produzione e contro la violenza – per questo motivo subisce particolari attenzioni dalle istituzioni di potere, intellettuali o repressive che siano.

Tornando ai film, possiamo allora rileggere Jons, il paggio del Settimo Sigillo, insieme al nuovo spirito degli anarchici montanari, facendone, più che un semplicione, un materialista felice, libero dal fuoco della tecnologia e della religione: “la mia pancia è tutto il mio mondo”, dice, “la mia testa la mia eternità, e le mie mani due magnifici soli. Le gambe sono i dannati pendoli del tempo e i mie piedi sporchi i due eccellenti fondamenti della mia filosofia. Il tutto vale esattamente quanto un rutto, con l’unica differenza che un rutto dà più soddisfazione”. Manca solo il sesso, filosofico Bergman, maliconico Bergman – una pancia, due soli, un po’ di musica e abbiamo un’anarchia coi piedi per terra.

 

Carlo


Beat Humanism

Posted: March 6th, 2012 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Beat Humanism


“I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked”… così urlava Ginsberg. Nell’ultimo film di Tony Kaye, Detachment, l’urlo è strozzato in gola e le menti che muoiono di fame, nude e isteriche, sono quelle di una intera generazione.

Detachment non è il solito film sulla violenza nei licei americani. La violenza non è banalizzata e risolta con un corso di danza, nè interpretata in termini morali o generazionali. Non è neanche un film sull’istituzione scolastica, magari impostato in rigidi termini di classe come l’inglese NEDS di Peter Mullan, che pure, e per lo stesso motivo, ha il suo interesse. In un certo senso, Detachment è un film più attuale, di certo vuole essere più profondo, perchè è un film sul distacco dalla realtà delle relazioni umane. L’istutuzione scolastica è ancor più totale, perchè è vuota. E’ una Casa degli Usher, come recita la citazione finale del film, mentre nelle aule deserte agonizzano assieme ai libri di testo tutte le pagine della letteratura – una fabbrica della desolazione nella quale anche la poesia è impotente.

Detachement riesce a dare una visione veramente oscura del presente e del futuro non solo dell’educazione istituzionale, ma dell’intera cultura globale. Così, tra la portata ambiziosa e la complessità del tema, non può essere completo, e in particolare, alterna personaggi e monologhi molto riusciti, perfino esaltanti, a situazioni al limite del moralismo, che ne indeboliscono l’impatto politico. Anche per questo viene in mente Kerouac, che scrivendo di Dean Moriarty e Sal Paradise pare avesse in mente Pilgrim’s Progress – una specie di Divina Commedia alla puttanesca. Come le due cose vadano insieme spesso è un mistero, tutto Americano, ma, nello specifico di Detachment, l’anello comune tra critica sociale e battismo riformato è senz’altro Martin Luther King – e c’è sicuramente di peggio.

Rispetto ad American History X, in Detachment l’elemento razziale è in secondo piano, ma c’è la stessa fiducia nell’educazione umanista come base della condotta personale e come strumento di coesione sociale. Un umanesimo per niente pacificato e conservatore, ma anzi rivitalizzato dall’incontro con la lotta per l’emancipazione della comunità afroamericana, incarnato in American History X dal professor Sweeney (Avery Brooks), un accademico di colore che ha scelto di insegnare in prima linea nei licei e che si pone come antagonista efficace rispetto all’ideologia violenta del white power. E, in Deatchment, un umanesimo beat – nel senso che gli dava Kerouac, tra beatific and beaten: qualcosa tra la gioia trascendentale e l’essere picchiati a sangue. Di nuovo un insegnante, Henry Barthes (Adrian Brody), un supplente veterano a suo agio tanto nelle aule, dove conserva un distacco modellato su quello del Pianista tra le rovine di Varsavia, che nelle strade più remote della periferia dove si aggira sobrio e allucinato.

Clip.

I suoi colleghi formano un corpo docenti non meno memorabile e flamboyant. Lucy Liu è la professoressa Parker, oltre i confini dell’esasperazione, che sbatte in faccia ad una ragazzina strafottente l’inconsistenza delle sue illusioni (rispetto a cui la stessa bellezza dell’attrice, e il casting “fuori luogo”, creano una bella mise en abîme) e la realtà del mondo verso cui si dimostra così indifferente. James Caan è Mr. Seadbolt: fuori controllo, viaggia su manciate di prodotti chimici e regala momenti di ferocissimo sarcasmo contro gli studenti, mentre il suo collega Tim Blake Nelson semplicemente si aggrappa alla rete del cortile, distrutto e nauseato e convinto che nessuno possa vederlo. Chi è già crollato è un professore di cui ascoltiamo solo messaggi in segreteria: uno di questi, in cui si lamenta rabbiosamente di genitori e alunni e invoca un ritorno all’ordine e alla disciplina, degenera in una cacofonia di latrati nazisti.

Kaye su questo punto è chiarissimo: il problema non può essere risolto con un irrigidimento dell’istituzione, come si cerca di fare dappertutto in questo momento – quello che manca sono gli esseri umani. Nelle sue foto, una degli allievi, Meredith (Betty Kaye), mostra tutti senza volto, assenti, le aule vuote. Non luoghi e non persone. I ragazzi suoi comapgni sembrano droni suicidi, ed è nell’ordine delle cose che lei, l’unica che accenna a non esserlo, che si guarda intorno con l’aiuto di una macchina fotografica e combatte per creare se stessa attraverso qualcosa di condivisibile, sia l’unica che si debba suicidare per davvero.

Clip.

Altra figura notevole è Mr. Mathias (Isiah Whitlock Jr.), un dirigente comunale che comincia il suo discorso che preannuncia la chiusura del liceo con un “lasciatemi dire che io amo gli insegnanti”, rubando il tono a Martin Luther King, per poi passare al gergo velenoso del piccolo uomo di potere, con una abilità di caratterista già dimostrata col magistrale “Shiiiiit” di The 25th Hour. Due esempi del doublespeak istituzionale in cui siamo immersi.

Il casting e la recitazione di Adrian Brody garantiranno una maggiore circolazione ad un film ostico mentre in tutto il mondo si dà il colpo di grazia all’educazione pubblica. Oppure no, magari proprio per questo si troverà chi è disposto a esercitarsi in mille o duemila parole di doppio pensiero ribadendo il valore del merito contro quello del diritto, dell’eccellenza del sapere sulla sua diffusione e del mercato del lavoro su qualunque altra cosa. Altri magari si aggrapperanno ad un apprezzamento qualunquista delle virtù di buon samaritano del personaggio di Barthes, o, più probabilmente, si limiteranno alle lodi a Brody attore. Staremo a vedere. Detachment, pur con un fastidioso abbozzo di redemption narrative, ha tutti i numeri per diventare un punto di raduno dell’immaginario nella rivoluzione sociale dell’insegnamento, perchè mette a fuoco il problema, insieme alle sue radici più profonde, e perchè è un film fatto bene, dal casting alla recitazione alla scrittura. Un film che mette in luce l’enorme responsabilità sociale degli insegnanti, un invito a cercare rapporti umani, a uscire allo scoperto, a parlare, a urlare.

Carlo


Du Levande

Posted: February 28th, 2012 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Du Levande

Film divertente, a volte feroce, costruito da Roy Anderssons come una serie di sketches abilmente legati sul filo della colonna audio, pieno di invenzioni di cinema puro. Il tema si potrebbe approssimativamente definire come l’insostenibile leggerezza dell’essere (curuccuruccucù-kundera): un’esistenza leggera perchè grottesca e insostenibile perchè insostenibile. Prima del bombardamento a tappeto su Stoccolma annunciato dalla scena finale, che presumibilmente non ne lascerà uno in vita, i vari personaggi saranno alle prese con fantasie d’amore, servizi bicentenari di porcellane appartenenti a nostalgiche famiglie neonaziste, il jazz dixieland, alzheimer, infarti e case semoventi. Per dirne solo alcune.

Ma tanto vale godersela lo stesso, l’esistenza, prima che l’onda ghiacciata del Lete lambisca il nostro piede fuggitivo – morale del poema di Goethe a cui allude il titolo del film, in svedese, Voi, i viventi. Gli attori sono tutti non professionisti e il film, tra questo e la peculiarità della struttura, ha faticato tre anni a trovare finanziamenti (fonte wikipedia), raccogliendo poi allori e monetine a Cannes 2007.

Tre scene estrapolate dal film per meriti vari di profondità e attualità sociale: razzismo, fondi di investimento e psichiatria – quest’ultima particolarmente memorabile.

Senza dubbio prima che vada in onda su rai tre, sapete dove andarlo a trovare. E se non lo sapete… sapevatelo.

Carlo


Dalla collina dei papaveri

Posted: February 21st, 2012 | Author: | Filed under: L'age d'or | Comments Off on Dalla collina dei papaveri

Giappone 1963. Due storie sul passato dei luoghi e delle persone, e sul ruolo del passato nel presente, si intrecciano intorno ai giovani personaggi dell’ultimo film dello studio Miyazaki, Dalla collina dei papaveri.

In una casa di una borgata di collina sul litorale di Yokoama, la composta Umi, diciassette anni, si occupa delle faccende quotidiane mentre la madre è in viaggio di lavoro e si prende cura di tre bizzarre pensionanti, ospitate per arrotondare le entrate. Ogni giorno, appena sveglia, Umi scende in giardino e alza al vento tre bandiere nautiche in memoria del padre, morto su una nave durante la guerra. Al messaggio che invia in silenzio verso il suo passato risponde ogni giorno, senza che lei lo sappia, il presente: Shun, un ragazzo appena più grande di lei, tutti i giorni alza tre bandiere in risposta al suo messaggio mentre passa sottocosta sul battello del padre per andare a scuola, la stessa scuola di Umi. Shun non ha idea di chi sia ad inviare il messaggio dalla collina dei papaveri, nè a chi sia diretto, e Umi non sa di ottenere una risposta, perchè una siepe di fiori le impedisce di vedere l’imbarcazione di Shun. Si innamorano così, senza saperlo, ognuno cercando qualcosa dentro di sè.

La storia di Umi e Shun si lega a quella di un luogo. Il vento di rinnovamento sollevato dalle imminenti olimpiadi di Tokyo investe la scuola dei due ragazzi quando il direttore annuncia il progetto di demolire la vecchia sede dei club scolastici, il Quartier Latin, per lasciare posto ad una struttura più moderna. Ma un pugno di studenti che ci è affezionato e che vuole conservare le esperienze che l’edificio ha raccolto negli anni, decide di difenderlo con ogni mezzo. Con la goliardia, prima, poi con una campagna stampa, mentre le assemblee scolastiche perdono il loro monocolore patriottico per diventare momenti di scontro appassionato e romantico, fino a mettere in piedi una iniziativa collettiva e concreta. Con la collaborazione dell’intero corpo degli alunni, maschile e femminile, ma soprattutto femminile, il vecchio edificio viene riordinato e ristrutturato, nella speranza che le autorità scolastiche ne riconoscano il valore e gli permettano di restare in vita. Sorvolando sulla fiducia eccessiva nel buon senso delle istituzioni, il Quartier Latin diventa una rappresentazione efficace di quel centro sociale che è necessario per diventare adulti.

Dalla collina dei papaveri mette in constrasto due visioni del presente – come ciò che cancella la storia e pretende di superarla ad ogni istante, e come ciò che nasce da essa, e allo stesso tempo non tanto la preserva, ma la crea. Il punto infatti non è tanto la difesa di uno spazio, nè che con la nuova sede le attività del club sarebbero rimaste danneggiate, ma l’esperienza in sé – la creazione di un luogo pubblico e vivente.

A differenza di tutti gli altri film della famiglia Miyazaki, il film non ha alcun elemento fantastico, anzi, il tono, tra il nostalgico e l’ironia semplice e sincera, ad ogni momento fa pensare che si tratti di un racconto personale di Hayao. Non è così: la regia è del figlio Goro, alla seconda e più felice esperienza, lo scenario, che pure è stato curato da Miyazaki padre, è basato su uno shoyo manga – un genere di fumetto giapponese incentrato sulle avventure romantiche liceali – degli anni ottanta. Tanto più efficaci allora la tecnica e lo stile dello Studio Ghibli, in grado di rendere la realtà materiale dei luoghi, anche se inventati, come le terme della città incantata o il castello errante, e la realtà delle persone che li vivono. Capaci di rendere l’atmosfera del cambio di un epoca, sospesa nel momento, potremmo dire, della “scomparsa delle lucciole”. Le lucciole che ancora si vedevano nelle notti del Giappone in guerra, e nel tristissimo film di Akiyuki Nosaka, Una Tomba per le Lucciole, unico sollievo di due bambini destinati a morire di fame in mezzo alla folla, e le lucciole di cui scriveva Pasolini. Un momento critico del cosidetto passaggio alla modernità, la scomparsa delle lucciole è un simbolo della scomparsa del mondo contadino, mai sostituito da qualcosa di ugualmente vivibile. Il momento della loro scomparsa è anche il momento all’origine dell’immaginario di Miyazaki – l’ascesa della città del ferro raccontata in forma di leggenda in Mononoke. Più ancora, il momento in cui questo immaginario è diventato necessario come forma di resistenza.

Carlo