Posted: July 4th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: La Sortie de l'école | 4 Comments »
Un anno fa usciva l’edizione italiana a cura di Mario Lippolis di Prestige de la Terreur, una raccolta di saggi di Georges Henein pubblicata per la prima volta al Cairo il 17 agosto del ’45.
Henein è stato un poeta, un surrealista e un rivoluzionario. Nel 1937 fondò al Cairo, dove era nato, il gruppo Arte e libertà, dal 1939 aderì al FIARI di Breton e Trockij. Finita la guerra, prima coordinò i movimenti surrealisti di svariati paesi e, allontanatosi poi dal movimento, scrisse come giornalista esperto di questioni del terzo mondo. E’ morto nel 1973 a Parigi.
Cosa intende Henein per “prestigio del terrore”? Due cose. La prima, una appropriazione generale delle forme di potere sperimentate dai regimi nazifascisti da parte dei governi capitalisti dopo la seconda guerra mondiale. La seconda, una generale claustrofilia, una rassegnazione all’ingiustizia, radicata in tutti gli strati della società.
San Giorgio, scrive Henein, ha ucciso il drago, ma ora è diventato un drago a sua volta, ricoperto di una lucida armatura, e per questo ancora più pericoloso. In altre parole, gli stessi metodi di sterminio, pulizia etnica, rappresaglia sui civili e controllo militare della popolazione che erano stati combattuti prima, il drago, caratterizzano ora la vita quotidiana delle democrazie post-belliche. Solo che quello che veniva considerato disprezzabile ora è degno di prestigio. Dopo il vivido spettacolo del terrore che è stata la guerra, che ha scoperto i nervi nudi del potere, già nel ’45 Henein ci avvertiva che tutto sarebbe presto tornato come prima.
E, con notevole anticipo sui tempi, Henein descriveva la situazione di inerzia mortale che si è instaurata nel mondo politico contemporaneo, l’altra forma di prestigio del terrore. “Per l’essere civilizzato”, scrive, “vi è qualcosa di peggio della sua perdita di potere sugli organismi che lo rappresentano e agiscono in suo nome. E’ la rassegnazione a questa perdita”. Tale rassegnazione ha molti volti, ma ha radici nell’accettazione dei limiti indiretti che i sistemi di potere impongono alle forme di lotta contro l’oppressione. Come dire, non tanto la rassegnazione agli apparati repressivi, ma a quelli ideologici, che sono in grado di penetrare nell’organizzazione delle stesse attività rivoluzionarie.
Rassegnazione che Henein sintetizza nell’espressione “in mancanza di meglio”: “se si aderisce al Partito comunista (o a qualsiasi altro…) senza avere la minima garanzia della sua politica presente e futura, è ‘in mancanza di meglio…’ […] Se si vota per un candidato il cui aspetto politico vi ripugna e la cui fermezza politica si rivela dubbia, è ‘in mancanza di meglio…'”. In altre parole, quando è il sistema a dettare le alternative, non ci sono vere alternative.
La reazione più umana a questo genere di situazioni è la fuga. Ma il primo segno dell’imporsi del terrore è di impedire ogni fuga, attraverso “la progressiva cancellazione del diritto di asilo”, la cancellazione della libertà di movimento. Movimento materiale e, allo stesso tempo movimento del pensiero. Frontiere militarizzate ai confini degli stati e paralisi mentale nei giovani privilegiati che potrebbero creare alternative, potrebbero fuggire, ma come i borghesi dell’Angelo sterminatore o gli immaturi Basilischi di Lina Wertmuller, si condannano ad una morte per soffocamento. Soccombere, o resistere, in egual misura senza creare alcuna nuova possibilità di cambiamento, sono fonti di prestigio all’interno del sistema perchè entrambe le cose lo rinforzano.
Ciò che Henein immagina contro questa desolazione, di certo pescando dall’esperienza dei surrealisti, è “non un partito, ma forse dei partigiani di un genere nuovo che abbandonassero i modi classici dell’agitazione per dei gesti di perturbazione altamente esemplari”.
Se quindi il fascismo ha accelerato “lo sviluppo dell’elefantiasi morale e materiale che affligge le potenti [allora] istituzioni di “sinistra” nella quali la voce della massa si perde con la stessa facilità di quella degli individui”, la nuova guerriglia di pensiero dovrebbe avere lo scopo di soppiantare innanzitutto l’iniziativa delle gerarchie politiche.
Strappando ai partiti il monopolio del pensiero politico e riducendoli al ruolo di meri esecutori del pensiero creativo rivoluzionario, prima o poi si potrà, sosteneva Henein, superare il blocco che le forze di potere, al governo come all’opposizione,
impongono alla vita politica. E si potrà anche sciogliere il più insidioso e profondo blocco costituito dalla noia e dall’orrore della libertà, dal prestigio del conformismo e del terrore, che prima ancora di essere propagandati dalle istituzioni, hanno una inquietante origine nei singoli individui.
Carlo
Georges Henain Prestigio del terrore, Edizioni Colibrì – I libri dell’Oroboro, 2005
Posted: May 12th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: L'empire des lumières, La Sortie de l'école | 4 Comments »
Spesso si ritiene che il copyright, nelle incarnazioni con cui siamo abituati a confrontarci, sia parte integrante e fondante della nostra società. In genere si pensa che, senza diritto d’autore, nessuno sarebbe spinto a creare alcunchè di nuovo.
In questo articolo analizzeremo come quello che oggi chiamiamo diritto d’autore sia tutto tranne che una tutela per gli artisti o, più in generale, per i creatori di nuova conoscenza.
Il copyright moderno nacque successivamente all’invenzione della stampa. Prima di questo evento, chiunque poteva copiare un libro semplicemente facendolo di suo pugno. Di fatto il commercio delle opere non esisteva, e quindi non si sentiva il bisogno di legiferare sull’argomento. Un autore veniva pagato per scrivere un’opera, in genere dal potente di turno, ma non vedeva una lira per le copie del suo libro che venivano prodotte dopo la prima stesura.
Con l’avvento della stampa la situazione cambiò radicalmente, in quanto iniziarono a nascere gli editori, che, stampando migliaia di copie dei libri che gli autori scrivevano, iniziarono a creare profitto dalla diffusione di un libro su larga scala. Per assicurarsi di avere sempre nuove uscite con cui allettare il pubblico, gli editori, assieme ai governi, crearono il copyright. Il diritto d’autore, nella sua forma originaria, voleva essere un incentivo per gli autori, che tramite esso, si vedevano corrisposto un compenso per ogni copia dei loro libri che veniva venduta.
L’introduzione dei vincoli sulla copia delle opere letterarie toglieva ai lettori la libertà di effettuare copie dei libri che acquistavano, ma era bilanciata dalla garanzia di avere sempre nuovi libri di qualità e di finanziare gli artisti.
Col passare del tempo, tuttavia, le aziende spostarono il fulcro dei contratti di copyright sempre meno a tutela degli artisti e sempre più a tutela di sè stesse. Quello che doveva essere un diritto temporaneo, che arrivava a scadenza dopo un ragionevole lasso di tempo al fine di favorire nuove opere iniziò a venir prorogato. Emblematico è il caso della Disney, e delle sue pressioni sul governo americano per non veder scadere i diritti su un topo partorito ormai quasi 80 anni fa. Anzichè far fronte allo scadere delle royalty creando nuova arte, si paga il governo per allontanare il giorno in cui si dovrà fare i conti con lo scadere del copyright, e quando questo giorno si avvicinerà di nuovo, lo si posticiperà ancora e ancora. Il sistema ha mostrato chiaramente le sue contraddizioni.
Con l’avanzare della tecnologia, inoltre, è diventato sempre meno costoso diffondere opere d’arte, fino a giungere all’era di internet, in cui copiare un brano musicale non costa nulla ed è quasi immediato. Le aziende avrebbero potuto reagire a questo cambiamento in vari modi. Reagirono restringendo sempre più la libertà degli utenti, arrivando a commercializzare musica riproducibile solo su determinati lettori, o a vendere libri elettronici leggibili da una sola persona e per un numero limitato di volte. A una tale riduzione di libertà, però, non corrispose un adeguato corrispettivo agli autori.
La bilancia tra libertà tolte agli utenti e incentivi per la produzione di nuova arte iniziò a pendere troppo da una parte.
In quest’ottica si colloca il ciclo di conferenze che Richard Stallman sta tenendo in giro per l’Italia in questo periodo. L’inventore del software libero e del progetto GNU ha deciso di estendere la propria attenzione dai programmi per computer a tutti i campi del sapere, esponendo una sua visione di come, nel 2008, il copyright dovrebbe cambiare per restare al passo coi tempi.
Stallman ritiene che le libertà che vengono tolti agli utenti tramite il Digital Rights Management o altri meccanismi simili siano inaccettabili.
Egli ritiene che la diffusione di qualsiasi opera, per fini non commerciali, dovrebbe essere libera.
In particolare, individua tre categorie di opere che vadano coperte dal copyright:
- Tutte quelle opere che siano necessarie per la collettività – Si tratta, ad esempio, dei farmaci, o dei progetti di strade, o la ricetta per produrre energia pulita. Tutti questi prodotti, essendo fondamentali per il progresso e il benessere della società, dovrebbero essere disponibili per tutti, sia a fini di studio che di fruizione. Gli utenti devono essere liberi anche di migliorarle, in quanto da quest’azione trae giovamento tutta l’umanità.
- Opere legate a memorie – Sono tutte le opere "storiche", frutto di
testimonianze dirette dell’autore o di inchieste giornalistiche. Per
queste opere Stallman propone la libera circolazione non commerciale,
ma la possibilità di venderle o di modificarle solo con l’esplicito
consenso dell’autore. In questo modo si garantisce a chi produce opere
di guadagnare per il proprio lavoro, qualora questo venga distribuito a
scopo di lucro. Si garantisce anche che non possano esistere modifiche
del lavoro di un autore senza la sua approvazione. In questo modo si
vuole preservare l’integrità storica di questo genere di produzioni.
- Opere di "intrattenimeno". Si tratta di tutte le restanti opere
letterarie, dai romanzi ai brani musicali. Per queste opere, Stallman
propone una riduzione drastica della durata del copyright, intorno ai
10 anni. Pone vincoli simili alle opere del gruppo 2, salvo che, per
mantenere l’integrità artistica di un’opera, non ne ammette la modifica
fino allo scadere del copyright. Una volta scaduto questo, l’opera sarà
completamente di pubblico dominio, e la comunità avrà anche la facoltà
di distribuirne proprie versioni modificate.
Resta la domanda su come facciano gli autori a guadagnare se chiunque può distribuire gratuitamente le proprie opere. L’obiezione nasce dalla convinzione, errata secondo Stallman, che chi produce arte guadagni in maniera rilevante dalle opere che vende. Questo, a suo dire, è falso, in quanto, ad esempio, i soldi che derivano dalla vendita dei dischi vengono distribuiti in maniera iniqua in gran parte alle superstar e in minima parte agli autori minori.
Stallman teorizza allora un mezzo informatico in grado, tramite la rete, di trasferire, tramite un clic, un euro all’autore di un brano che ci piace, semplicemente visitando la sua pagina web. Tagliando fuori le case discografiche, la distribuizione ingiusta dei proventi avrebbe fine.
Credo si tratti di riflessioni interessanti, con le quali magari si può non essere totalmente d’accordo, ma che costituiscono una buona base per una discussione critica.
g.
Posted: May 8th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: La Sortie de l'école | 11 Comments »
Guagliardo scrive: “Una società ancorata all’ideologia produttivista […] conosce solo il principio del successo individuale, riservando alla sconfitta i regni dell’oblio e/o della vergogna”.
L’accento qui, più che sulla lotta e sull’ingiustizia che conosciamo, è sulla sorte, e più ancora sulla funzione, dello sconfitto. Dalla spietata competizione nel “mondo del lavoro”, alle torture subite e al silenzio che viene imposto alle vittime del sistema carcerario, fino alla patologizzazione della devianza sociale, assistiamo in ogni campo ad un rifiuto ed una rimozione sistematica del perdente, di chi per scelta o per incapacità non entra a fa parte del sistema “normale”, che altro non è se non il sistema dominante.
Questo sistema non solo esclude i “perdenti”, ma è fondato su questa esclusione, che Guagliardo definisce come il “rito del capro espiatorio”. Ad esempio, il sistema penale ha la funzione di definire il crimine, e dunque lo crea “al fine di cementare moralmente la società al rito del capro espiatorio e di avere una ‘delinquenza maneggevole’ (Focault), che giustifichi il controllo sull’intera popolazione”. Il criminale è il capro espiatorio che giustifica l’esistenza, e l’ingiustizia, dell’intero sistema.
Il sistema penale dunque, prima ancora di essere un apparato repressivo dello stato, va combattuto nella sua forma di ideologia. Basta pensare come la percezione della criminalità sia costantemente e intenzionalmente distorta a vantaggio dei criminali di maggior caratura attraverso l’adozione a “capro espiatorio” dei piccoli delinquenti, e dall’abuso della cronaca nera. Niente di molto diverso avviene nei confronti dei falliti di altra natura, attraverso altre forme, più o meno sottili di discriminazione culturale, economica, sessuale.
Dunque la società per Guagliardo si raccoglie, nasce, attraverso questi violenti riti di esclusione, in un modo non diverso da quanto descritto da Elias Canetti in Massa e potere.
Si torna così al problema della violenza, che Guagliardo ha già affrontato in Di sconfitta in sconfitta, sostenendo che l’uso della violenza non può avere altro esito che la conferma o la creazione di un potere oppressivo. Da questo fatto, Guagliardo derivava la necessità per ogni movimento rivoluzionario di adottare metodi non violenti.
Chi pratica un comportamento violento sottomette le proprie responsabilità allo scopo che intende raggiungere. Al contrario la forma base dell’azione non-violenta consiste nell’obiezione di coscienza in quanto essa non ammette questa sottomissione. Allo stesso modo chi acconsente, anche solo rinunciando ad opporsi, ad un sistema basato sulla violenza, inevitabilmente accusa e aggredisce chi non può o non vuole farne parte. Così il violento come l’indifferente sono entrambi coinvolti nella violenza della discriminazione.
Attraverso questi argomenti Guagliardo giunge quindi ad individuare nel consenso, prima ancora che nella violenza, l’elemento generatore dell’oppressione: “il potere non nasce dalla violenza, ma dal consenso, più precisamente dalla servitù volontaria”.
L’obbiettore, ovvero il rivoluzionario non violento, è dunque innanzitutto colui che nega il suo consenso ponendosi al di fuori della massa dei “vincitori” e di chi si ritiene nel giusto solo perché accetta un sistema condiviso. Ma proprio per questo il rivoluzionario si troverà ad essere uno sconfitto, un emarginato e perfino un anormale, perché tale è effettivamente secondo le coordinate del sistema che vuole combattere.
Spesso però pur di partecipare in qualche modo alla vita politica o sociale così come essa è strutturata si è tentati da una soluzione più facile e “si cambia causa quasi senza rendersene conto”. Col risultato paradossale che a volte anche la validità di idee rivoluzionarie è giudicata in base al successo sociale di chi le professa.
Carlo
Vincenzo Guagliardo, Resistenza e suicidio. Appunti politici sulla coscienza, Edizioni Colibrì, Torino 2005.
Posted: April 24th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: La Sortie de l'école | 4 Comments »
Iniziamo a guardare alla composizione dell’ultimo governo definito “di sinistra”: Per quanto riguarda l’economia Prodi, D’Alema, Veltroni rappresentavano scelte liberiste; Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani il contrario. Anche La Rosa del Pugno era liberista, i Verdi no, Mastella e Di Pietro non si sa esattamente (parlo di sinistra intendendo l’ultimo governo Prodi, ma molte persone che si qualificano di sinistra non lo definiscono come tale. Lo appella così invece Berlusconi, che quasi mai vi aggiunge “centro”, troppo lusinghiero dal suo punto di vista, quando non parla genericamente di comunisti).
Quanto al campo dei diritti civili, una parte della Margherita, insieme a Mastella, era avversa a PACS et cetera, contro tutti gli altri che erano invece a favore dell’allargamento dei diritti civili alle coppie di fatto. I DS, dal canto loro, cercavano la quadratura del cerchio: nonostante la parte a favore di un allargamento dei diritti civili apparisse sulla carta maggioritaria, le leggi da essa auspicate non hanno avuto esito.
Su temi quali sicurezza e immigrazione pareva non ci fossero grossi contrasti (Mastella raccoglieva voti dove il fenomeno migratorio è meno sentito), ma la caduta della legislatura ha bloccato la riforma della Bossi-Fini. A livello locale però, le linee seguite da Sindaci come Cofferati a Bologna o Domenici a Firenze mostrano anche qui un quadro variegato.
Per non dire delle scelte di politica internazionale, dove si andava dal D’Alema della guerra in Kosovo ai manifestanti a Vicenza.
In generale, accanto ad identità partitiche forti (Rifondazione) vi erano quelle settoriali (Verdi), personalistiche (Mastella, Di Pietro); vi erano poi partiti con un’identità divisa, perché inglobavano diverse tradizioni, come la Rosa Nel pugno e l’Unione. Quest’ultima, pur in continuo sviluppo, avendo cambiato quattro volte in quindici anni forma e nome, per arrivare oggi ad essere un americanizzato Partito Democratico, e pur tendendo sempre progressivamente verso al centro più per necessità che per scelta; quest’ultima è riuscita ad essere il secondo partito italiano per grandezza senza mai essere realmente protagonista al governo: i due governi di centro sinistra della seconda repubblica hanno sempre visto i partiti maggioritari in balia
di quelli minoritari.
Chiunque abbia votato per le coalizioni di centrosinistra negli ultimi anni, non ha sentito il governo a cui aveva dato il voto come suo: né chi ha votato per i “piccoli” (da Rifondazione a Mastella), né chi ha votato per i “grandi”.
Ma dal ’94 il centrosinistra rappresenta in sostanza l’eredità del vecchio “arco costituzionale” (in questo senso ciò che unisce la
destra è l’estraneità, se non l’avversione, ad esso: An per tradizione, Lega e FI perché salirono alla ribalta in funzione del disfacimento di quei partiti storici).
Ciò ha fatto sì che le cariche istituzionali (la presidenza della Repubblica e i funzionari dello Stato, per esempio una fetta importante della magistratura) siano state nella seconda repubblica suo appannaggio: è un fatto che i senatori a vita, in gran parte ex-capi di stato, abbiano tenuto in vita a lungo il secondo governo Prodi.
Così la sinistra rappresenta la tradizione primo-repubblicana e le alte istituzioni da una parte, il “movimento” dall’altra. Accademici settantenni e centri sociali, sindacati e industriali, logiche clientelari e associazionismo. Nostalgici di Berlinguer e di Craxi nella stessa formazione.
Quindi, che cos’è la sinistra oggi? Una prima risposta, salvo miracoli, attualmente è: nostalgia.
Nostalgia di un epoca che va dalla pubblicazione del Manifesto del partito comunista di Marx nel 1848 alle lotte sandiniste, da Turati a Berlinguer, da Mao a Renato Curcio, da Rosa Luxemborg ad Arafat. Dal Enrique Lister alla Teologia della liberazione. Nostalgia per la cultura militante, per il movimentismo e per l’internazionalismo, per Orwell come per Malcom X. Nostalgia per la lotta sociale, dall’occupazione delle fabbriche all’autunno caldo, e di una politica che si presentava come diretta emanazione di quella.
L’impressione è che dalla Bolognina la classe politica di sinistra abbia sempre più seguito come modello il liberal americano o il labour inglese, mentre il suo “popolo” ha conservato le istanze e i desideri di quella tradizione variegata e composita che, ben lungi da risolversi tutta nel marxismo, ha avuto il minimo comune denominatore nella definizione di antifascista.
Questa tradizione, però, ha fallito, quantomeno come prospettiva politico-economica. Il marxismo (o meglio, i fenomeni politici che tali si dichiaravano) che nella storia situava il suo banco di prova, proprio su questo banco ha fallito.
E, falliti i presupposti storici del marxismo, è scomparso l’orizzonte rivoluzionario. La sinistra italiana non aveva mai mancato di presupporre un fine nel proprio operato che non fosse rivoluzionario. Ci si divideva fra riformisti e rivoluzionari, certo, ma anche i riformisti avevano in mente una rivoluzione (nel senso di cambiamento radicale del sistema economico – politico): tutti volevano giungere alla società socialista. Turati come Ferri, Togliatti come Nenni; Gobetti come Gramsci e Ingrao come Ghisleri.
Già Saragat e in seguito Craxi, cambiarono parere, infine fu costretto a farlo anche il Partito Comunista Italiano, che divenne socialdemocratico quando ormai la socialdemocrazia era già in crisi in Europa.
La sinistra italiana dopo l’89 ha dovuto cercare un modello storico alla quale rifarsi. E questo modello lo ha dovuto cercare all’estero, sgretolatasi la tradizione comunista e rivoluzionaria che ha caratterizzato tutta la sua storia, con poche e minoritarie eccezioni.
E’ sintomatico di questa mancanza di un modello condiviso la scelta di Veltroni di rifarsi all’americano Obama in campagna elettorale, mentre la costituente del nuovo partito si accapigliava se inserire o meno Berlinguer, Craxi e Moro nel “Pantheon” della nuova formazione politica.
In mancanza di questo “Pantheon” condiviso, la soluzione – forse l’unica possibile – è stata importare dall’estero.
Né, a ben vedere, si è comportata diversamente la Sinistra Arcobaleno, i cui modelli storico-politici, più che alla storia della sinistra italiana, si sono rifatti alla nonviolenza ghandiana, a Zapatero e alle nuove figure carismatiche che sono sorte negli ultimi anni in America Latina.
Ciò che manca al PD, sia chiaro, è un modello per mobilitare il consenso elettorale, perché una classe dirigente da proporre al paese – che sia “policamente corretta”, e quindi liberista liberale e europeista – l’avrebbe già, da Padoa-Schioppa a Monti, da D’Alema a Montezemolo.
Dunque a domanda: “ che cos’è la sinistra?” la risposta “ è nostalgia” è giusta. Manca alla sinistra un sogno comune. Un modello condiviso.
Stefano
Posted: April 20th, 2008 | Author: anarcosurr | Filed under: La Sortie de l'école | 4 Comments »
“Mi si dice che da anni, nel mondo dei liberi, i pentiti di vario tipo della lotta armata premiati dallo Stato (dai delatori ai semplici abiuranti) amano ripetere a tutti: meno male che abbiamo perso”.
Vincenzo Guagliardo, membro delle BR e attualmente detenuto, trova in queste parole un significato più sottile, appartenente ad una precisa impostazione di pensiero: “chi è per il cambiamento”, scrive, “ovvero si ritiene ‘rivoluzionario’, dovrà sempre riconoscere di non aver mai raggiunto la perfezione, e perciò dovrà accettare la verità che si vada sempre avanti da un errore all’altro”, di sconfitta in sconfitta.
Il primo punto della riflessione di Guagliardo, che investe direttamente anche la sua maturata posizione rispetto alla militanza nelle BR, è dunque una demistificazione dell’ideologia.
Ogni sistema ideologico tende a costituirsi come unico, esclusivo, e dunque a porsi in conflitto con ogni altro sistema e a generare relazioni di potere. Questo avviene allo stesso modo per le ideologie autoritarie come per quelle della rivoluzione. Per Guagliardo, la capacità di riconoscere e vivere la sconfitta corrisponde alla rinuncia alla pretesa di avere con sé ogni verità (o ogni eresia) ed è l’unica base passibile per il cambiamento. Dunque, il primo nemico di ogni movimento rivoluzionario sono le sue stesse tendenze autoritarie, che germinano dalla incontrovertibilità delle proprie pratiche e delle proprie idee.
A maggior ragione se un movimento ricorre alla violenza, che è sempre la violenza della repressione. Guagliardo individua nella rivolta violenta quello stesso rito del sacrificio che è il principio fondamentale delle strutture di potere.
Fascisti, nazisti e, in modo diverso, alcuni filoni anarchici, hanno invece “ravvisato una funzione catartica nella violenza reattiva, creatrice perciò di relazioni umane e solidali di fronte al pericolo”. Anche le Brigate Rosse, scrive Guagliardo, implicitamente e senza rendersene conto, hanno adottato “non solo una tattica ma l’intero modo di pensare di quella cultura i cui frutti contestavamo”. La lotta, rivoluzionaria o di semplice contestazione, se è combattuta sullo stesso piano delle forze contro cui si confronta (prima di tutto, il piano della repressione), non solo non è efficace, ma anzi si configura come un elemento favorevole alla reazione. Continua Guagliardo, citando Emilio Lusso in Teoria dell’insurrezione (Milano 1969): “nessuno può condannare chi, in un momento di oppressione politica, si renda giustizia da sé. Ma il terrorismo politico organizzato è una deviazione della lotta politica. Esso ne costituisce la forma primitiva, lo stadio inferiore. […] Un movimento rivoluzionario deve rinunciare ad ogni azione terroristica”. E infatti sappiamo che questo tipo di terrorismo, quando manca a sinistra, spunta fuori dall’altra parte, al soldo dei poteri forti.
L’aderenza dei gruppi rivoluzionari alle logiche delle strutture di potere, prima di tutto impedisce il pensiero critico: “che peso può avere, in un’organizzazione che combatte, il dubbio, oppure il pensiero problematico? Questa esigenza può solo autoreprimersi o essere emarginata.” E in questo modo ogni potenziale rivoluzionario è sostanzialmente soffocato. Oppio non è solo la religione, ma “ogni -ismo”, ogni ideologia.
Ciononostante, questo genere di formazioni ideologiche suscitano non poca “simpatia”. Qui Guagliardo per descrivere questa fascinazione a livello dei movimenti rivoluzionari, paragona questi ultimi a Robin Hood: “Robin Hood viene facilmente applaudito perché è evidente che non sei chiamato a fare come lui ma è lui che fa per te. Tu non puoi seguirlo giacché la sua pratica richiede capacità, disponibilità e mancanza di legami che tu, popolano, non ti puoi permettere… Ma allora cos’è che in realtà ti dà Robin Hood? Ben poco, se si va a vedere: forse solo la soddisfazione del sentimento di vendetta, ossia un’emozione elementare che rischia di fermarsi al risentimento contro i potenti”.
Con questa analogia Guagliardo mette in guardia contro la passività degli attivisti, nella partecipazione alle lotte rivoluzionarie. Una passività molto pericolosa, che corrisponde ad una cessione di responsabilità: “l’azione armata, con la sua selettività, oscura questo aspetto tipico della moderna società atomizzata in tutti i suoi rapporti sociali: assolve, verso il basso, ognuno dalla sua micro-responsabilità di servo volontario facendo così scomparire la visione del più grande tiranno mai esistito”.
Ma se la lotta armata quale metodo rivoluzionario conduce ad esiti reazionari, non per questo si può giustificare la passività conformista o la partecipazione convinta alla gestione del potere. Guagliardo ci ricorda, infatti, che “il non violento è tale solo quando rischia più del violento”.
Carlo
Vincenzo Guagliardo, Di sconfitta in sconfitta, Vincenzo Guagliardo, La Grafica Nuova, Torino 2002.